Ognuno di noi ha due genitori, quattro nonni, otto bisnonni e così via.
Risalendo fino all’epoca dei romani ciò significa, in linea teorica, un miliardo di miliardi di antenati diretti per ciascuno di noi.
Ho letto che uno spermatozoo, dividendosi da quarantasei a ventitré cromosomi, può dare luogo a otto milioni di combinazioni diverse. Altrettante per l’ovulo. Ricombinandosi tra loro, le sequenze possibili aumentano a dismisura: il risultato mostruoso è che due genitori possono generare qualcosa come centomila miliardi di figli, geneticamente tutti diversi l’uno dall’altro. 

Certe volte, come adesso, osservo mia figlia, mia figlia è questa persona tutto sommato ancora piuttosto piccola, pesa intorno ai quattordici chili, esistono pesci più grossi; non sa far di conto, sebbene pronunci i numeri in sequenza corretta fino a dieci: è una bambina, ne ha tutta l’aria, gli atteggiamenti sono quelli di una bambina, ma esattamente chi è?

Un pensiero microscopico

Ogni tanto mi guarda, scrivere è molto difficile con lei nei paraggi, è una bambina buona, è una bambina educata e sa stare da sola, ma ogni tanto mi guarda: il problema di uno sguardo, se così può chiamarsi, è che attiva un dispositivo cerebrale, almeno nel mio cervello, per cui mi risulta impossibile a lungo andare non guardare a mia volta.

Succede con tutti, succede pure quando a guardarmi è mia figlia. Perciò la guardo, la guardo anche io. Il mio mondo percettivo si riempie di lei. Vorrei sapere che cosa sta facendo, ma mi rendo conto che ancora più a fondo vorrei sapere che cosa sta pensando.

Sono abbastanza sicuro che capire cosa sta pensando qualcuno possa dirci tantissimo di quel qualcuno. Perciò mi distraggo. La guardo, lei mi guarda, poi torna a fare ciò che stava facendo e io no. Io non ci riesco più. Mi concentro — o per meglio dire: mi fisso — su questa forma di vita autonoma che già si è staccata da me e da noi, seppure in un modo ancora talmente naïf, e mi domando chi sia.

È un pensiero microscopico, una domanda che si solleva e si posa in un battibaleno, ma che ha il potere di lasciarsi dietro un solco indecifrabile, una forma di buio. Come quando in certi anfratti del pensare quotidiano riesce a penetrare l’idea della morte, della mortalità. È un attimo, poi passa, ma l’odore di zolfo rimane. Chi è mia figlia? Di quei circa centomila miliardi di figli possibili, chi abbiamo generato mia moglie e io?

Non si tratta di pensarla già adulta: il disvelamento non ha niente a che vedere col crescere. Magari. Sarebbe facile. Non saprei dire chi sono gli adulti tanto quanto non so chi siano i bambini. È una questione più profonda che ha a che fare con l’insondabile domanda che riguarda tutti: chi siamo? A stento lo so di me. Perché dovrei conoscere questa bambina, centro del mio mondo, universo assoluto e regina di ogni mio pensiero? 

A cosa servono le ginocchia

A volte la spio: è un inganno che ancora riesco a perpetrare ai suoi danni. Per esempio: da poco ha imparato a fare la pipì nel vasino. Ecco, quello è un momento ideale per spiarla, perché le piace andare a farla da sola. Di certo è orgogliosa, questo l’ho capito: tra quelle otto milioni di combinazioni diverse che i ventitré cromosomi hanno plasmato c’è spazio per una bambina orgogliosa.

Questo è almeno un poco conoscerla. Sapere chi sia. Quindi capita che voglia andare da sola, che pretenda di andare da sola. Se faccio per accompagnarla, gentilmente o non molto gentilmente declina l’offerta. Va detto che è brava: si tira giù i calzoni, le mutande, si accovaccia e fa la pipì. Si pulisce con la carta igienica, si riveste.

Suo padre la spia: deve essere un’immagine abbastanza comica vista da fuori, quest’uomo che sono rannicchiato dietro lo stipite della porta che osserva sua figlia accovacciata sul vasino fare pipì. Può impiegare anche trenta, cinquanta secondi prima che si avverta il fatidico rumorino, e allora mi chiedo: a che cosa pensa?

La guardo guardarsi le due piccola ginocchia rosa, senza fare niente, aspettando che un moto fisiologico per lei ancora molto più che inspiegabile le spinga fuori dal corpo quel ridicolo flusso di acqua giallognola che tanta felicità sembra instillare nei suoi genitori. Non credo abbia un’idea precisa del suo corpo, non sa esattamente a che cosa servano le ginocchia.

Se le tocca, se le gratta. Sa che se le sbatte fa male. Poi la pipì esce e tutto finisce. Si alza, si avvicina alla carta igienica, ne strappa un lembo, si pulisce, la carta finisce nel water e io penso: chi sei? Qualche volta si dimentica che deve tirarsi su calzoni e mutande e comincia a camminare come un pinguino, con le caviglie bloccate dagli indumenti. Non sa che suo padre la sta guardando e per quanto possibile quella è mia figlia allo stato neutro. Una bambina di nemmeno tre anni al suo stato neutro, che cammina come un pinguino.

Chi sei?

Potevi essere diversa in altri centomila miliardi di modi, invece sei tu. Cioè chi?
Esiste una versione di te a cui non piace Masha e Orso? Una versione di te meno goffa, buffa, ridicola? Una versione di te che ha paura dei cani? Una versione a cui non piacciono i libri ma preferisce gli acquari? Una versione di te per cui il verde è meglio del giallo?

Esiste, lungo questa linea evolutiva di multiformi possibilità, una bambina che sa stare immobile mentre la mamma le fa le treccine? È sicuro di sì ed è altrettanto sicuro che lo stesso sarebbe mia figlia.
Ma tu, tu chi sei? 

Chiunque.
Mia figlia è chiunque.

Il teatro in cui recitiamo

Quasi mai ci penso, ogni tanto sì.
La sera, quando si fa tardi, c’è questo momento di definitivo atterraggio in cui la bambina si sta per addormentare e io sono seduto accanto a lei, appoggiato al lettino, nella semioscurità della sua cameretta, il festival di stelle e di lune proiettate sul soffitto, le sagome in chiaroscuro di tutti i suoi peluche e bambole e pupazzi, compagni di giornata con nomi e caratteri, precise funzioni, verso cui — assurdo a dirsi — anche io ho cominciato col tempo a nutrire una forma di primitivo sentimento ed ecco, siamo lì. Nel mezzo di un teatro in cui per lunghe ore è andata in scena una commedia e che adesso riposa.

Mia figlia e io, lei prossima al sonno, io a mollo in una bolla di silenzio in cui tutto si fa più denso e preciso. Me l’ero quasi dimenticato, ma nella mia mano c’è la sua, piccola, un gesto che puntualmente richiede quando è sul punto di addormentarsi, come se oltre quella china misteriosa qualcosa la spaventasse e avesse bisogno di essere rassicurata.

Di cosa è capace l’amore

Sento di avere questo potere, e mi piace, e come tutti i poteri mi spaventa e seduce; sento di essere un porto sereno per la bambina, in un certo senso è un tale onore costituire l’ultimo baluardo di sicurezza poco prima dell’oblio della notte, e allora mi capita di girarmi a guardarla.

Ancora pochi secondi e mi alzerò per tornare in salone, da mia moglie, dalla puntata di “Game of Thrones” lasciata a metà, dal vino. Il mondo adulto. Ma prima mi giro a guardarla: la riconosco in quanto tale, è mia figlia. Una su otto milioni di combinazioni, eppure la riconosco. Una figlia tra centomila miliardi, ma io se la guardo posso dire: è lei.

Un click del destino e in questo stesso momento starei guardando una bambina mora, anziché bionda. Una bambina con un neo sullo stinco e non sulla spalla destra. Una bambina a cui il mandarino non piace. E lo stesso sarebbe mia figlia.
Analogamente la riconoscerei.

Sono il padre di questa bambina e di altri centomila miliardi di figli.
Di tanto è capace l’amore.

Non è “Chi sei?” la domanda.
La domanda me la fa mia moglie, come tutte le sere, quando torno di là: “Dorme?”.
E io so di chi sta parlando.
Lo so così bene.

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