Di recente sono stato ospite di un bellissimo festival letterario in Sardegna, a Gavoi, in piena Barbagia, un luogo assurdo dove non sanno che quella è un’isola con il mare intorno; esperienza mistica, quattro giorni immerso in cose di libri e scrittura e vino bianco e pecore e maialetti e sole e cieli argentei e pochissime zanzare.

Da che questo festival esiste — ben sedici anni — la serata finale, di commiato, prevede il cosiddetto “mirto con l’autore”: tra i vari scrittori ospiti ne vengono scelti una manciata, chiamati destinati condannati a salire sul palco, davanti a più o meno un migliaio di persone, per raccontare un momento imbarazzante a propria scelta.
Se il pubblico gradisce, ci si è meritati un mirto, spendibile direttamente sul palco.
Prosit.
Altrimenti, be’, altrimenti si beve lo stesso.

Ecco, m’è toccato.
Pensavo di averla fatta franca e invece m’è toccato.
Mi hanno chiamato sul palco e sono andato.

Piccoli barattoli sterili

Ero seduto in prima fila e tra me e la gogna c’erano sei o sette metri e cinque gradini.
Li ricordo tutti, i gradini, perché messo piede sul primo non avevo idea — giuro — di che cosa avrei raccontato.
Al terzo idem, il nulla.

Al quarto ho pensato: mi siedo lì e l’affronto proprio con l’accademia di base, facendo narrazione dell’imbarazzo dell’imbarazzo di non avere niente di imbarazzante da raccontare.

Quando ho preso posto, e dopo aver scambiato poche battute di accordatura con chi presentava la serata e qualche altro ospite presente, ho abbassato lo sguardo sul tavolo davanti dove, tra le altre cose, era appoggiata la bottiglia di mirto ghiacciato e una serie di bicchierini di plastica più simili a piccoli barattoli che a bicchieri.
Piccoli barattoli sterili.

L’immagine ha improvvisamente attivato un recesso del mio sistema nervoso centrale lanciandomi un ricordo.
Ho afferrato uno di quei bicchieri di plastica e l’ho mostrato al pubblico.
Subito dopo mi sono sentito dire al microfono: “Una volta, mi sono masturbato in un coso molto simile a questo facendo scattare l’allarme generale del Policlinico“.

Il che mi dà il “la”, adesso”, per fare la classifica dei tre momenti più imbarazzanti che mi siano capitati durante la mia esperienza di FIVET.

3) Neonati bruttissimi

Non so se siete mai stati in un reparto di sterilità di un ospedale italiano. Funziona un po’ come dappertutto, ospedale o non ospedale, dove venga erogato un qualsiasi servizio, cioè cercano di convincerti che sei nel posto migliore per ottenere ciò che stai cercando, e questa cosa la ottengono con l’ausilio della “customer experience“, nello specifico con foto di bambini nati con la tecnica della Fivet, foto di bambini già nati, nati grazie alle prestazioni di quell’ospedale (nel caso mio e di mia moglie, l’Ospedale Maggiore Policlinico – Clinica Regina Elena di Milano), bambini che stanno bene, che rendono felici coppie che erano invece tristissime prima di incrociare la loro strada con la suddetta struttura.

Foto ovviamente spedite dagli stessi genitori, foto corredate da poche righe di ringraziamenti nei confronti di questo o quel medico, artefice del miracolo, il miracolo della vita laddove la vita sembrava proprio non volerci entrare.

Benissimo, durante tali interminabili ore trascorse nella saletta di quel reparto — mia moglie, la futura madre, in attesa di essere visitata, analizzata, studiata, monitorata, sezionata eccetera — a me restava poco da fare se non guardarmi intorno e intorno non potevo notare altro che questa tappezzeria un po’ grottesca, a tratti inquietante, di ex feti che ce l’avevano fatta e che erano diventati neonati.

Neonati bruttissimi.
Dei cessi di neonati, ok?
Neonati mostruosi.
Giuro, non vorrei sembrare cinico, ma erano orrendi.
Non qualcuno, non certi: tutti.
Non solo brutti: moltissimi erano gemelli. Brutti e gemelli.
Mi trovavo in un luogo diabolico dove innestavano negli uteri gemelli cessi.

Ammetto che erano frangenti di ipersensibilità, però arrivato a un certo punto non avevo più il coraggio di alzare gli occhi sulle pareti.

Ho scaricato tante di quelle batterie del telefono.
Mi ero fermamente convinto che l’effetto collaterale della fecondazione in vitro fosse la generazione di figli cessi.
Quando è poi nata mia figlia, di una bellezza straripante, mi sono sentito inevitabilmente un po’ stronzo.

2) L’aneddoto dell’anno

fivet

All’inizio del nostro lungo peregrinare, mi ritrovai in uno studio medico privato per effettuare uno spermiogramma: non ero molto esperto della cosa, ora che ci penso forse era il mio primo spermiogramma in assoluto e insomma una volta arrivato il mio turno, un omino venne a chiamarmi per consegnarmi il, diciamo, kit e indicarmi il bagno dove effettuare The Big Thing e va bene adesso la voglio fare davvero breve perché mi sto imbarazzando solo a ricordarlo, sbagliai, ecco, non mi chiedete come caspita fu possibile, però sbagliai, non entrai nella Stanzetta Deputata, che mi aveva indicato l’omino, ma nel normale cesso dello studio, che aveva una porta scorrevole, con una chiusura evidentemente difettosa, istanza, quest’ultima, che scoprii mio malgrado giunto più o meno a metà dell’opera, quando qualcuno, per fortuna un uomo — almeno… — spalancò quella porta e noi ci ritrovammo occhi negli occhi, immobili come cerbiatti stupiti, per almeno tre virgola nove secondi, contateli, possono essere lunghissimi, io a fare ciò che stavo facendo, in piedi, appoggiato al lavandino (in effetti avrei dovuto chiedermi come mai in una Stanzetta Deputata non fosse presente, che so, una sedia, uno sgabello), e lui, poverino, così, con l’aria di chi si era appena visto servire l’aneddoto dell’anno su un piatto d’argento.

1) Il mio capolavoro

E allora, il mio capolavoro, quello che mi ha premiato con un mirto a Gavoi, in Sardegna, durante l’ultima serata del festival, si compì durante la fase più cruciale della FIVET, il cosiddetto transfer, quando da uno a tre pre-embrioni sospesi in una goccia di medium di coltura vengono aspirati in un sottile catetere e così posizionati in cavità uterina.

Bene, la solita infermiera con gli occhi spenti e un french manicure imbarazzante mi chiamò a sé per consegnarmi (rieccoci…) il kit necessario a fare quello che dovevo fare, cioè un sacchetto di carta per alimenti e un barattolo di plastica simile a quello per l’esame delle urine e — avrei notato alcuni anni più tardi — ancora più simile a certi bicchierini destinati a ricevere un mirto ghiacciato durante il più importante festival letterario della Sardegna.

Mi e ci venne sottolineata più volte la questione dell’orario, un tempo stabilito da rispettare per portare a termine una masturbazione, il cui frutto era destinato, ancora caldo, alle nostre mogli in attesa al piano di sopra, in qualche misteriosa stanzetta a cui noi, semplici, inutili mariti, non avevamo speranza d’accesso.

Con me, un’altra decina di padri esangui, tutti in queste cellette di stampo nazista, alle dieci del mattino, dopo una notte ovviamente agitata, la pippa peggiore della nostra vite.

Forse per la stanchezza, per la confusione, la paura, non lo so, fatto sta che dopo una scaramantica e liberatoria pipì, chiusa la porta alle mie spalle con tre o quattro mandate di chiave, anziché tirare la cordicella dello sciacquone tirai quella dell’allarme e giuro che mentre il suono da raid antiaereo strillava nelle mie orecchie, udibile probabilmente fino alle Svalbard, presi in considerazione l’idea di lanciarmi dalla finestrina di quel cesso e sparire: l’alba di una qualsivoglia eccitazione sessuale distante come Plutone.

Mi toccò invece aprire alle infermiere che bussavano con insistenza chiedendo “Tutto bene? Tutto bene?”, e spiegare loro a occhi bassi, morto dentro, l’imbarazzante aneddoto.

Più tardi il campione del mio seme, tanto faticosamente estratto, avrebbe incontrato l’ovulo e dai due ai tremila spermatozoi mobili sarebbero entrati in contatto con l’ovocita, con una percentuale di fecondazione pari a circa il 75%, cosa che in effetti avrebbe dato il “la” a mia figlia.

Epilogo

Non è proprio finita qui.
Dovete sapere che nel loculo accanto al mio si trovava un altro padre, del tutto simile a me, anche lui alle prese con la medesima questione — si chiama anche lui Stefano, oggi siamo grandi amici —, il quale, evidentemente a sua volta agitato dall’impellenza che gli toccava, accolse il suono agghiacciante della sirena da me attivata non tanto come un allarme di pericolo “X” ma come IL SEGNALE che fosse ora per gli uomini, i mariti, i futuri padri, di portare a compimento l’opera, una specie di chiamata alle armi, un «EIACULATE ADESSO O MAI PIÙ!» imperioso e insindacabile, che lo atterrì a tal punto che dovette rimandare l’opera manuale di qualche minuto.

Mi raccontò tutto ciò qualche ora più tardi, a transfer completato — sua moglie, Silvia, e la mia, condividevano la stessa stanza — e io confessai d’essere stato l’artefice di quell’inferno refrattario.

Oggi Stefano e Silvia hanno due figli — anche il secondo, o meglio la seconda, Beatrice, è stata concepita tramite FIVET —, passiamo molto tempo insieme, e l’imbarazzo di quei minuti è solo un ricordo buffo da raccontare: quando ci vediamo, spesso, e i nostri bambini giocano o litigano o ridono o fanno la cacca, mi sembra sempre un miracolo enorme, un colpo di fortuna che dovremo essere bravi a meritarci, vita natural durante.

La FIVET è anche questo: un incontro di vite, di volontà comuni, desideri e sogni, di persone che hanno a cuore la vita, in un mondo che sempre di più sembra orientato alla sua stessa estinzione. Prosit.

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