Non manca molto e mia figlia compirà tre anni.
Già lo sa fare con le dita, il “tre”: indice della mano sinistra più indice e medio dell’altra mano.
Me li sento anche io, questi tre anni, queste tre dita, come linee di febbre: sono qualcosa che si aggiunge a qualche altra cosa, creando un pieno che si deve per forza svuotare a secchiate, per necessità di galleggiamento.
Non è tanto la crescita, a colpirmi, o l’invecchiamento, diciamo così, quanto la distanza che di continuo la bambina — con una banalità sconcertante — mette tra sé e la sua versione precedente, di fatto uccidendola: passando oltre come si fa con un libro terminato di cui, a lettura finita, permangono lievi ondate di ricordi, poi piano piano più niente.

Fa girare la testa e ogni tanto è disperante ma, come ebbe a dire Paul Valery, la bellezza è ciò che fa disperare ed è questo che succede praticamente ogni giorno da tre anni circa a questa parte: indice di una mano più indice e medio dell’altra mano; bellezza più disperazione.

Un ex follicolo che ce l’ha fatta

Ho imparato che, oltre ogni altra istanza, essere genitori significa fare pace con la disperazione, con il terrore.
Potrebbe sembrare terribile, ma giuro che è una sensazione piacevole, come d’altra parte ogni resa. Mi sono arreso presto all’amore che provo per mia figlia; sono stato sconfitto da questo piccolo ex follicolo che ce l’ha fatta, e che oggi ha sviluppato ironia e orgoglio, audacia e ostinazione, gusti e che dopodomani non ci sarà più, a favore di qualcosa di completamente diverso e che dovrò ricominciare da capo ad amare, ad accettare.

Pochi giorni fa sono andato incontro a mia moglie che era appena uscita dalla riunione con la direttrice della futura scuola materna che la bambina frequenterà; aveva le lacrime agli occhi e un sorriso. Bellezza e disperazione, di nuovo. Ci sta. Significa che nostra figlia indosserà un grembiulino colorato, farà le recite, imparerà l’inglese e un giorno tornerà a casa e avrà ventinove anni. Significa che sta crescendo, che sta morendo, che noi ci stiamo dissolvendo.

È inaccettabile, lo so. Bellezza e disperazione. Non ci pensiamo sempre, come tutti, solo ogni tanto. Mentre fa le costruzioni da sola, buonissima, mentre finge di chiamare il dottore perché una sua bambola è caduta, quando dal nulla piazza nel discorso una parola nuova che a noi non sembra di avere mai detto. Solo ogni tanto. L’amore è questa cosa qui, è anche giusto celebrarlo nella sua interezza: non nasce, non può nascere senza la filigrana di perdita che si intravede appena controluce.

Una dolorosissima scheggia

Tre anni tra poco.
Si sta allungando la distanza non solo tra me e la neonata, ma anche tra me e la bambina.
Un giorno guarderò una delle fotografie che oggi corredano la mia quotidianità, uno dei suoi primi piani goffi e buffi di cui è piena la memoria del mio telefonino, un giorno, tra trent’anni, trentacinque la guarderò, sarà un giovedì, sarà metà gennaio, e mi tornerà in mente il gusto del caffè americano, la complicata reazione muscolare che stavo innescando per mantenere la tazza in equilibrio sulle ginocchia e contemporaneamente immortalarla, volendo rendere eterna la sua risata di infante, catturarla in un quadro da fare invecchiare al posto suo; fallendo nel progetto.

Un giorno succederà, certo, la distanza sarà aumentata ancora e la mia bambina sarà diventata una donna inspiegabile che perfettamente saprà comporre il numero tre col pollice l’indice e il medio di una mano sola, e che tuttavia continuerà a coincidere con la bambina che è stata, che è adesso, in un modo che avrà a che fare con il cuore misterioso delle cose: io lo saprò e lo saprà sua madre, questi due vecchi custodiranno per lei il segreto immenso di ciò che lei non saprà di essere stata.

Ogni genitore muore portandosi dietro — calcificando — questa dolorosissima scheggia.
Non c’è un segreto più affascinante e insieme doloroso della proiezione della persona che mia figlia sarà, quando lei stessa mi consente di distinguerla intorno ai contorni delle sue piccole abitudini.
Bellezza e disperazione.
È una lezione dura e affascinante, come tutte quelle che sanno mettere sullo stesso piano vita e morte. 

Le infinite versioni di un figlio

Essere un genitore ha di continuo a che fare con la morte. I propri figli muoiono sempre, ogni tot si rigenerano in qualche altra cosa, una nuova versione che con la precedente non ha più nulla a che fare. La bambina inerme che oggi mostra pudore a farsi vedere svestita. Il piccolo verme immobilizzato e tremolante al centro del tappeto che oggi sa andare sul monopattino.
È difficile abituarsi, a volte è triste. 

Non esiste più quella mia figlia che non sapeva afferrare le cose e le mancava, comicamente, perché non riusciva a mettere a fuoco o a calcolare le distanze. Non esiste più. Se n’è andata quella bambina, non abita più casa nostra. Al suo posto ce n’è un’altra. Lo so che è la stessa, ma so anche che non lo è, che non lo sarà mai più. Che fine ha fatto? Non c’è più, è morta a suo modo, è mutata: da quella ne è nata una nuova, sconosciuta ancora per poco, che si svilupperà, per talea, fagocitando la precedente, e così via, fino a una forma che non farò in tempo a vedere.

Bellezza e disperazione.
È spietato ma va bene così.
In “Delitto e Castigo” Dostoevskij scrisse: «Hanno pianto un poco, poi si sono abituati. A tutto si abitua quel vigliacco che è l’uomo», però comunque è meglio se ne riparliamo quando con le dita saprà fare “quattro”.

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