L'amore di un padre: lento a nascere, ma infaticabile

"Mi sono chiesto più volte se ci sia un momento, un click, per così dire, che inneschi il rapporto d’amore tra il padre e una figlia, quello banale e retorico, di cui odio parlare, che mi porta, ad esempio, a guardare le foto della bambina sul cellulare sei minuti esatti dopo che l’ho lasciata al nido".

Confesso d’approcciarmi a queste righe con almeno quattro giorni di ritardo, rispetto ai tempi concordati. Arranco, sono in affanno. Succede, la bambina ha avuto  l’influenza, di notte la tosse, la moglie all’estero per lavoro. Il mio tempo trascorso con lei, quand’è così tanto, un po’ immoto — l’impossibilità di uscire, eccetera —, è cambiato.

Mi pare che nulla, nella mia vita, si sia mai modificato a tal punto. Oggi mia figlia ha due anni e mezzo e posso dire che solo da un anno, più o meno, ho cominciato a sentire di avere accanto a me anche una persona, una persona vera, oltre che una responsabilità, una missione: cioè qualcuno con cui stare, con cui condividere qualcosa, per cui e di cui sentirmi grato e felice.

Il lavoro di un artigiano

Vado orgoglioso del sentimento stranissimo e forte che ho costruito con questa bambina, la quale solo accidentalmente è mia figlia: costruito, voce del verbo costruire; non un rapporto innato, dunque, non un rapporto automatico, o ereditato, bensì qualcosa di ancora più massiccio e ingombrante perché lavorato, sagomato con l’intenzione dell’artigiano che scorge o intuisce la forma del tavolo nel grezzo di un tronco d’albero.

Non mi condanno, sono il padre, il padre impiega più tempo, il padre, lo abbiamo già detto, è quello più indietro, quello che prima o poi arriva. A pensarci meglio, la metafora dell’artigiano non è cogente, poiché essere un artigiano presuppone una minima dotazione di talento — egli è portato per il suo mestiere —: il padre no.

Una mattina, me la ricordo precisamente, con la vividezza di certi momenti straordinari vissuti inconsapevolmente e poi riapprezzati, era estate, agosto, la bambina aveva appena due mesi, io anche — ero ancora quell’uomo invisibile che cercava la posizione nell’ecosistema della paternità –, ci trovavamo a Genova, nella grande casa di Genova in cui è nata e cresciuta mia moglie.

padre e figlia sgambati
Foto: Stefano Sgambati

Da solo, o meglio in compagnia di questa micro-persona, in cucina, cercavo di intrattenerla, non sapendo bene che cosa fare, quali fossero i suoi reali bisogni — aveva preso il latte da poco, aveva dormito, aveva fatto il “ruttino”: e adesso? —, cercando in quegli occhi enormi e vuoti un senso, un riferimento qualsiasi. Sua madre si trovava al piano di sopra, addormentata, ma a me sembrava di essere l’ultimo uomo sulla Terra: d’istinto afferrai un libro che avevo lasciato sul tavolo il giorno prima, più per bisogno di punti di riferimento che altro, e provai a leggerle per intero il racconto “Il Naso” di Gogol’.

Leggevo a mia figlia, a quella neonata, alzando gli occhi su di lei ogni volta che pronunciavo male o incespicavo e dovevo ripetere una delle obsolete e stranissime parole della traduzione di Tommaso Landolfi, “brenna arrembata”, “fignolo”, come se temessi la sua disapprovazione, quando era invece ormai più che lapalissiano che a lei non faceva né caldo né freddo, com’era giusto che fosse, che non stava capendo assolutamente niente, che per lei quella situazione non era bella o brutta o dolce o appassionante, per lei avremmo potuto essere su Marte e quel racconto, anziché Gogol’, avrebbe potuto averlo scritto Massimo Gramellini o i Modà.

Semplicemente, quando terminai la lettura, la cosa finì lì. Non un moto di gioia, né di disprezzo, da parte sua, niente. Mia figlia era tutto lì, una cosa viva incapace di apprezzare, incapace di avere una qualsiasi opinione: l’avevo fatta io, avrei dovuto amarla oltre ogni limite, ma soprattutto avrei dovuto comprenderla.

Invece mi riusciva solo di vedere quanta strada ancora ci fosse da fare.

Dove siamo arrivati

sgambati e bambina
Foto: Stefano Sgambati

Due anni dopo, o pressapoco, mi ritrovo in ritardo per questo articolo, avendo dovuto trascorrere un po’ di giorni con mia figlia.

Due anni dopo è oggi e io sono un uomo innamorato di lei: oggi la rispetto, mi ispira fiducia, non in quanto mia figlia ipso facto, ma in quanto persona vivente che si è conquistata col tempo i miei sentimenti. Sono innamorato perché si merita il mio amore, perché è intelligente e ironica, perché è educata, perché ha un carattere che mi piace: sono le medesime istanze che mi avvicinano agli adulti; le stesse che, in absentia, mi inducono a preferire Netflix alle persone.

Ciò non significa che ho allevato un cane fedele, ma che non sono in grado di separare il sentimento dallo spirito critico. È un difetto, è un pregio, non lo so: questo è il padre che le è toccato in sorte, questo è il padre che è toccato in sorte a me di diventare. 

La mia creazione

Mi sono chiesto più volte se ci sia un momento, un click, per così dire, che inneschi il rapporto d’amore tra il padre e una figlia, quello banale e retorico, di cui odio parlare, che mi porta, ad esempio, a guardare le foto della bambina sul cellulare sei minuti esatti dopo che l’ho lasciata al nido. Credo di sì, ma parlo per me, credo che per quanto mi riguarda tutto sia avvenuto al suo primo vero “cambio di pelle”, quando mia figlia ha abbandonato le vesti della neonata per infilarsi in quelle della bambina.

I primi tentativi di verbalizzazione, il miracolo del “parlare”, seppure per vaghi fonemi, lallazioni più o meno intellegibili, hanno cambiato le carte in tavola. Non tanto sentirmi chiamare “papà”, non gli abbracci, i moti d’affetto, i baci, senza i quali non se ne parla di andare a letto, quanto le sue piccole ma concrete esternazioni: la prima volta che mi ha fatto capire che qualcosa che le avevo cucinato le piaceva.

Lo stupore davanti al mare, sempre a Genova, l’estate scorsa, sto parlando di uno stupore “da adulta”, consapevole, pieno di domande e dita puntate, ma anche di un certo quantitativo di terrore, il modo in cui istintivamente si stringeva quando le onde si avvicinavano troppo; mi riferisco anche ai nervosismi, alle frustrazioni, fastidiose ma abbastanza umane da tracciare almeno un simbolo riconoscibile in questa irrisolvibile equazione.

Il corpo e l’inganno

Il corpo, soprattutto, ecco, il suo corpo a partire da un dato momento ha segnato un solco profondo, la consapevolezza che lei stessa ha maturato nei confronti del suo proprio corpo: la coscienza di possederne uno. Un giorno mia figlia ha capito che il suo corpo aveva il potere di cambiare tutto intorno a sé, tutto, proprio a livello di pressione atmosferica, il suo corpo di essere umano, il suo corpo di donna: una volta compreso di avere tale potere non è mai più tornata indietro, sfruttandolo a più non posso, con gli ammiccamenti, le piccole seduzioni, gli atteggiamenti melliflui.

Il suo incontro con l’inganno ha avuto su di me l’effetto di una grande ondata che ti schiaccia sul fondo del mare e poi ti lascia libero, un enorme spavento subito seguìto da una sensazione di profonda liberazione: siamo uguali. Questa bambina e io apparteniamo alla stessa specie, vogliamo le stesse cose e per ottenerle siamo in grado di adoperare la stessa innata perfidia.

Foto: Stefano Sgambati

La filigrana di cattiveria, quindi di complessità umana, che all’improvviso ho cominciato a intravedere in lei, mi ha fatto innamorare senza possibilità di ritorno, perché è vero che si ama ciò che ci assomiglia, ma ancora più vero è che perdutamente cominciamo a innamorarci di qualcuno nel momento esatto in cui capiamo che possiede — e non ha paura di usare — gli strumenti per sfuggirci.

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