Quando mia figlia nacque, un 12 luglio milanese caldo, pieno di sole, non ci fu nulla di particolarmente complicato. Mia moglie e io arrivammo in ospedale sul farsi dell’alba, prima di mezzogiorno era tutto finito. A sera diedi un bacio a questa nuova famiglia e tornai a dormire a casa. 

Fuori, mi accorsi che il meteo era cambiato: adesso tirava un vento forte e per strada mi ritrovai a evitare rami e tronchi caduti. Parecchi lampeggianti dei pompieri ricreavano una strano foliage arancione. Non dormivo dalle due della notte precedente, ero rimasto in piedi per tutto il tempo, mangiato quasi nulla e, cosa ancora più strana, non mi era parso di aver parlato con nessuno, nonostante le visite, gli abbracci, il via vai dei parenti e degli amici. Quantomeno non di me, delle mie sensazioni, di ciò che stavo provando. Ma andava bene così: naturalmente è la madre la vera protagonista di un parto.

Misi la freccia per entrare in garage e fu più o meno in quel momento, mentre aspettavo che il cancello si aprisse abbastanza per attraversarlo con l’auto, che capii di sentirmi solo. Una sensazione strana, tutto sommato eravamo aumentati da due a tre — la famiglia, unica istanza in cui la matematica ha regole proprie e uno più uno fa tre — e l’aria doveva essere di festa, era di festa, eppure quel cancello si spalancò e si richiuse e io sempre lì fermo, nell’auto, con la freccia a sinistra che faceva click clack.

Una specie di non-madre

Cos’ero? Cos’ero diventato? Come potevo sentirmi solo nell’ora della morte della solitudine? Eravamo entrati in un mondo fatto di colori e rumore, mia moglie e io, secondo la narrazione genitoriale in vigore, di caos, intensità, rivoluzioni, perciò che cosa mi stava capitando? Tutto, ma solo no.

Mezz’ora dopo, in una osteria sul Naviglio che oggi è stata soppiantata da un’altra osteria sul Naviglio, cominciai a mettere a fuoco la cosa: io ero soltanto il padre. Una specie di non-madre, ecco tutto. Per l’intera giornata le persone si erano rivolte a me come se non fossi presente, la chiesa adiacente alla stalla, o l’estintore appeso al muro subito appresso alla Gioconda, per intenderci: qualcosa di esistente, non proprio di accessorio, ma leggermente fuori contesto. Il male necessario, avrei imparato a definirmi con qualche ironia, nei mesi successivi. Sbocconcellavo un hamburger niente male (oggi nell’osteria che ha soppiantato quell’osteria si mangiano ugualmente hamburger niente male) e per la prima volta nella mia esistenza di essere umano, circa trentasei anni, avevo una figlia.

Un po’ mangiavo e un po’ guardavo sul telefonino le foto di questa nuova creatura, questo ex follicolo che ce l’aveva fatta e che si chiamava Brenda. In poche ore ne avevo scattato una settantina, tutte identiche, pressapoco, una specie di filmato in stop motion. Era buffa, non particolarmente bella. Un agglomerato di carne dai meccanismi complessissimi e dalla fragilità assoluta. C’era qualcosa di davvero strano in quella neonata, qualcosa di incomprensibile tra le pieghe del rapporto che in teoria avrebbe dovuto legarci.

Voglio dire, chi era?
A un certo punto, durante quella giornata pazzesca, una tizia in camice verde mi aveva piazzato in mano una micropersona e mi aveva detto: «Tenga, pesa tre chili e quattrocento grammi», al che a me era venuto soprattutto da rispondere: «Ok, bene. Ma chi? Chi è che pesa tre chili e quattrocento grammi?». La conoscenza umana richiede tempo, è una ricerca, un muso umido che si infila sotto il fogliame; io non avevo questa capacità di visione, questa empatia con il prossimo, questa fantasia. Questo, diciamo così, quinto senso e mezzo in più. Io non ero la madre.
Mi avvolse una piccola bolla di panico.

Un padre chi è?

Non-essere la madre non è una mancanza da poco: al padre è richiesto un miracolo. Davvero. Un miracolo di immedesimazione. Un miracolo di improvvisazione. Di nascere, a sua volta. Una madre esiste già, non solo grazie a quei nove mesi assolutamente incomprensibili; una madre nasce quando scopre di avere un utero, nasce la prima volta in cui passa davanti a un negozio premaman di un centro commerciale e capisce e pondera che il suo corpo si può dilatare, che può contenere.

Un padre chi è? Un padre è quest’uomo che mangia un hamburger ancora del tutto sconvolto mentre una tempesta estiva, fuori, fa farfugliare i tovaglioli lasciati sui tavolini all’aperto, ed è solo, lo è stato per tutto il giorno, nell’orgia di festa e felicitazioni che l’hanno trasformato in un secondo o poco più da figlio a questa nuova condizione stranissima.

Per tutti quei mesi, da quando mia moglie mi aveva telefonato una mattina e aveva usato l’aggettivo “altissimo”, in riferimento al valore delle sue Beta-hCG, da quella mattina, da quando — nemmeno ne avevamo un’idea precisa — nel suo corpo aveva cominciato a formarsi un abbozzo di placenta, avevo passato ogni giorno cercando di essere la persona migliore possibile, avevo ideato ricette a base di legumi, importantissimi in gravidanza, inventato dei centrifugati perfetti, salubri, vitaminici, energetici, ma senza gonfiare; avevo trovato una teoria di cuscini, una vera e propria Disposizione Magica grazie alla quale mia moglie riusciva a dormire senza patire dolori alla schiena.

Quello destinato a rimanere più indietro

Ero stato ai corsi preparto, mi ero sentito chiamare “marito” — e mai per nome o cognome — da tutte le infermiere, i medici, gli ecografisti, gli specialisti e i dottorandi di qualsiasi reparto clinico, avevo osservato intorno a me germogliare una cartellonistica dedicata alle future mamme, parcheggi riservati, corsie preferenziali, avevo considerato la gentilezza e la galanteria degli estranei crescere in maniera direttamente proporzionale alla lievitazione del ventre di mia moglie, avevo sopportato milioni, davvero, milioni di conversazioni tutte uguali, che vertevano com’era giusto che fosse, sullo stato di salute della primipara, sul suo stato psicologico, il peso, i valori, e poi, retrocedendo in una specie di time lapse al contrario, esame del cariotipo, screening della fibrosi cistica, elettroforesi dell’emoglobina, epatite C e markers epatite B, ecografia pelvica, pap-test, tampone vaginale con ricerca di clamidia, micoplasma e trichomonas, anticorpi per citomegalovirus o herpes, ecografia mammaria, io sempre lì, in attesa, seduto fuori, o accolto in extremis all’all’interno di queste salette di vago stampo nazista, a cercare di essere coinvolto in qualsiasi modo dal medico di turno, fosse anche uno sguardo di compatimento, di vicinanza umana, invece quasi sempre niente, semmai ogni tanto un’occhiataccia obliqua come a domandare e tu chi cazzo saresti? 

Be’, io ero il padre, certo.
Quello destinato a rimanere più indietro.
Masticai un po’ l’hamburger, un po’ questa nuova parola che era anche un ruolo.
Considerai l’ipotesi di un terzo bicchiere di Chianti, ma la stanchezza era tutto, era ovunque.  Nell’ultima foto che avevo appena ricevuto, la bambina dormiva, con la bocca a forma di una piccola “O”, supina sul petto di mia moglie. Per la prima volta da quando Tutto Quello era successo, mi commossi. Poi pagai il conto.
Conservo ancora quello scontrino.

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