All’inizio non ci facevo caso.
Mi dicevo: passerà.
Poi i sintomi sono peggiorati.
Avvisaglie, piccoli segnali d’allarme.
La certezza è arrivata col passo lento e implacabile delle persone di potere, quelle abituate per natura a vedere la gente azzittirsi quando entrano in una stanza. È arrivata così, in questa stanza affollata solo da me e mia moglie, lasciandoci esanimi e stupiti, un po’ rincoglioniti, certo sgomenti ma pronti ad affrontare l’inquietante presenza con la maturità delle persone adulte, dei genitori responsabili. 

Ci siamo guardati, ci siamo abbracciati, abbiamo capito che era tutto vero, che avremmo dovuto essere forti.
Nostra figlia, be’, ha l’accento milanese.

Dice “béne”, dice “biciclètta”.
Ma non fa niente, amore mio.
Puoi parlare come vuoi, sai?
Siamo persone progressiste, siamo persone intelligenti, siamo persone che…
Mi chiama “papi”.
Benissimo. Va benissimo.
Siamo genitori aperti, moderni, illuministi: sei libera di…
Dice “sénti”.
Nostra figlia ha l’accento milanese.
Non è una tragedia, non è un dramma, passerà.
(Gli accenti passano?)
Io di Roma, mia moglie genovese, nostra figlia “parla” milanese.

Le parole non lasciano scampo.
Sono ghigliottine.
Le parole sono testimoni silenziosi del luogo da cui proveniamo, ma soprattutto delle persone che frequentiamo, della società in cui ci immergiamo, quindi del posto in cui stiamo andando.
Le parole sono un liquido di contrasto.
Gli accenti acuti, gli accenti gravi, i piccoli motti, le iterazioni, i modi di dire.
Le parole sono fratelli, sono sorelle.

Che cosa ne vuoi sapere tu?

Riassumendo: mi ritrovo con una figlia bionda con gli occhi azzurri, una figlia bionda con gli occhi azzurri milanese, che probabilmente si sposterà con Uber, una figlia già “mangiagallina”, forse un giorno pure “bocconiana”, che dice “Sono conténta”.

Ho una figlia così: io, emigrato romano, di Roma Nord, l’unica Roma possibile, borghese, viziosa, cocainomane, pigra, corrotta, arricchita, con le triple file e un’antica, ancestrale, consolidata e leggendaria voglia di non fare mai un cazzo: la nullafacenza come epica cittadina, come estetica; lei ipercinetica, precisina, saccentina e tutta una serie di altre cose che finiscono con —ina.

Che cosa ne vuoi sapere tu, figlia mia, che hai otto linee della metropolitana? Che cosa ne vuoi sapere di tutto quel traffico che mi sono dovuto sorbire? Tu adesso dici “trè”, à la Mike Bongiorno, ma io ti perdòno: nata milanese, non ne sai niente dei parcheggi che ho dovuto cercare, di tutta quella fatica, quella disperazione; di tutta quell’energia sprecata.

Tu: milanese, mangiagallina, probabilmente bocconiana (camerètta, perchÈ), che vivi in un posto in cui la gente si sposta col monopattino senza morirne e… sei bella, sì, alla fine non riesco a non notarlo, mi devo arrendere, sono pur sempre tuo padre, di parte, critico ma di parte, sei bella ed è milanese anche la cura con cui fai le tue piccole cose, nordica, il modo in cui pieghi la testa per cercare un libro tra i tanti che hai già, la cura, l’ordine, primordiale, confuso, bizzarro, goffo, un ordine che spesso costituisce l’anticamera di una frustrazione accecante, figlia del fallimento, ma pur sempre ordine, una specie di strano rispetto per la giustezza, se un pennarello spunta più di un altro dal suo alloggio nell’astuccio, se i cuscini non sono allineati, se non ti quadra qualcosa nella lavastoviglie, se i tuoi pupazzi sul letto sono sistemati in modo diverso dal solito, be’, impazzisci.

Questo anche è figlio di Milano, figlio della geografia in cui ti sei trovata immersa, tuo malgrado o per fortuna. Com’è milanese, o almeno così io ho deciso, la leggera diffidenza nei confronti di chiunque, che piano piano, non subito, coi tempi giusti, si sa trasformare in un amore perduto, in un’accecante dipendenza sentimentale, e d’altra parte non è forse nato così anche il nostro stesso rapporto, oggi così centrale, assoluto, rumoroso?

L’inizio della strada

Sono cose che non ti ho dato, io romano di vita, napoletano di nascita, luoghi con DNA profondamente diversi, da cui però in effetti anche io non mi sono forse mai sentito a pieno rappresentato. Sei forse la mia vendetta? La mia vendetta fredda sul territorio? Sull’antropologia culturale? Non so.

So invece che dici culètto
E so che io non dico culètto
Tua madre non dice culètto: anche questo lo so (non chiedermi come).
Quindi chi sei?
Come hai fatto ad arrivare fin qui?
Chi ti ha condotto?
Le tue maestre all’asilo? Gli amichetti?
(Gli amichètti)
La cosiddetta “società”?
(Ma: hai una “società” tu?)

Ogni tanto, non sempre, ogni tanto, subito dopo che hai detto sénti, con quella -e- chiusa, ermeticamente sbarrata, quando la leggera risata che tutti facciamo si è depositata, quello che resta, almeno dentro di me, è la coda di qualcosa, un pensiero, l’odore di un sigaro che qualcuno ha fumato lì vicino poche ore prima, una nostalgia, un sentimento ingenuo, per cui penso: ecco, ecco questo è il primo passo che fai oltre me, oltre noi, indipendentemente dai tuoi genitori, molti avverbi vanno bene allo stesso modo ma è “oltre” quello che mi convince di più: oltre tuo padre, oltre tua madre, il centimetro e mezzo oltre di noi, oltre i nostri insegnamenti, le nostre ombre, la nostra immagine e somiglianza. 

Mi piace, mi terrorizza: entrambe le cose, come tutto ciò che è complesso e maturo.
Il primo centimetro di distanza da quest’oasi che spero costituiamo è segnato dalle parole, dal modo di parlare.
È giusto che sia così.
Non c’è niente di più importante al mondo di come si parla, del modo con cui si scelgono di dire le cose.
Animalètto, va bene.
È l’inizio, davvero, l’inizio della strada, il primo microscopico passo che ti porterà non so dove, in un posto diverso, spero migliore di quello in cui abbiamo cominciato.

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