
Le infinite versioni di un figlio che cresce
I figli cambiano in continuazione, lasciando dietro di sé quello che erano e non saranno ...
Il rito di accompagnare e andare a prendere mia figlia al nido ha cambiato più di tutto la mia percezione del mondo intorno, e del tempo. Perché lungo quella strada ho visto cambiare lei.
Dopo due anni enormi, intensi, stupendi, lunghissimi e così corti che ogni tanto testa e coda mi pare coincidano, è terminata l’avventura di mia figlia presso l’Asilo Nido Il Giardino dei Navigli, che, se posso, approfitto per ringraziare pubblicamente.
A pensarci è una cosa pazzesca e stranissima: dei tre anni della sua vita, due anni e tre mesi circa li ha trascorsi tra quelle mura, con quelle maestre, in una struttura che non è mai stata un “parcheggio” ma un’esperienza formativa, di crescita fisica e cognitiva, di gioco fondamentale.
Due anni e tre mesi circa felici, leggeri, gioiosi, indimenticabili. Quanti giorni fanno? Fa paura a pensarci: stiamo parlando di più del 90% della sua vita. Cosa avete fatto voi per il 90% della vostra vita?
Io niente. Aperitivi, forse.
Ho milioni di ricordi, letteralmente, milioni.
Non so perché, non riesco a spiegarmelo, tra le centinaia di novità ed esperienze che la genitorialità ha portato nella mia esistenza, il rito di accompagnarla al nido e di andarla a riprendere è stata quella che più di tutte ha modificato la percezione del mondo intorno a me, del mio stesso tempo: forse perché facendolo, mattina dopo mattina, pomeriggio dopo pomeriggio, ho visto mia figlia cambiare, acquisire coscienza, diciamo crescere in un teatro circoscritto — il parco, la breve passeggiata —, uno scenario rimasto identico, un testimone silenzioso che ha contribuito a fissare la mia memoria sui dettagli, le piccole cose.
Abbiamo raccolto tutte le foglie gialle da terra, d’autunno, quelle verdi spezzate dal vento, d’estate, almeno undicimila, più o meno, dico bene amore? Abbiamo parlato con i bidoni della spazzatura: conversazioni piuttosto unilaterali a cui ho sempre assistito con una pazienza che di solito non mi riconosco.
Ci siamo fermati a tutte le panchine, mi pare diciannove, battendo con le mani sul legno e cercando di cancellare tutte le scritte di vernice perché erano brutte, urlando parecchio perché non ci riuscivamo: poi abbiamo imparato ad arrampicarci, crescendo, e adesso siamo in grado di sederci lì da sole.
Anche se non siamo stanche, anche se non ce n’è bisogno: è una conquista importante che abbiamo ottenuto a colpi di evoluzione e ci piace ostentarla. Ci piace, in generale, fare tutto ciò che il nostro corpo può fare.
Farlo all’infinito. Che altro? Abbiamo cercato di raccogliere duecentosedicimila mozziconi di sigaretta e duecentosedicimila volte abbiamo detto “no!” e ducecentosedicimila volte ci siamo guardati negli occhi per quattro virgola tre secondi prima di lasciare effettivamente perdere e passare al successivo.
Abbiamo puntato il microscopico dito indice su duemilaquattrocento cani, settemila piccioni e abbiamo imparato a soffiare sui cosiddetti denti di leone (o molto meglio: “soffioni”), col risultato che tutte le volte abbiamo cercato di raccogliere o di inseguire tutti e dico tutti i caratteristici “peli” bianchi del fiore (approssimativamente duecentomila) ritrovandoceli poi immancabilmente ovunque, in casa, nel letto, tra i capelli, nei vestiti.
Abbiamo cambiato senza motivo direzione un milione e seicentomila volte e non abbiamo voluto sentire ragioni, abbiamo fissato senza vergogna ragazzi che si baciavano, gente che litigava, rider di Glovo esausti con la testa tra le mani, adolescenti con lo spinello, ma fortunatamente tutte le volte o quasi abbiamo ricevuto in cambio un sorriso.
Abbiamo fatto a caso il verso della mucca per seicentosedici volte, abbiamo abbaiato, miagolato, imitato la rana, fatto la scimmia, inseguito gli uccelli — e poi ci si chiede come mai per almeno trecento volte siamo arrivati in ritardo, all’asilo.
Abbiamo scoperto di avere una cosa stranissima che ci insegue sempre, si chiama “ombra” e cercando di inseguirla abbiamo allungato il percorso di circa settanta chilometri, complessivamente; abbiamo visto le papere nel Naviglio, poi a un certo punto non le abbiamo viste più e per almeno duecento volte, cioè duecento giorni, abbiamo domandato “Dove sono andate le papere”?, novantasette signore ci hanno guardato e detto “Tesoro…” e noi abbiamo mostrato tutti e due i denti, poi tutti e otto i denti, poi tutti i denti quanti sono.
Abbiamo fatto trentaduemila foto un po’ in posa e un po’ no per arrivare a un risultato decente da mandare alla mamma in ufficio, ci siamo scapicollati sotto la pioggia, un paio di volte sotto la neve.
Abbiamo urlato, riso, qualche volta pianto per una caduta, abbiamo imparato un piccolissimo pezzo alla volta, cinquecento metri dopo cinquecento metri, questo strambo fenomeno che è il mondo e oggi che mia figlia non è più un “noi”, ma un’individualità talmente a se stante — ed è lei a raccontarmi le cose —, sono convinto che un sacco di quelle parole siano finite nella sua testa, come piccoli uccelli che nidificano, durante le centinaia di andate e ritorni verso e dall’asilo e che dunque tutto quel tempo abbia avuto un senso, un senso enorme e minuscolo insieme, che tutto quel tempo passato a dire, a spiegare, a guardare, a scoprire abbia avuto un valore, sia stata una cosa fertile.
I figli cambiano in continuazione, lasciando dietro di sé quello che erano e non saranno ...
Pace, ecco.
Andata e ritorno, dal lunedì al venerdì, infinite varianti incontrollabili, caos, incertezze e tensioni, ma durante quei quasi cinquecento metri: pace.
Ora, lo so che a settembre comincerà la scuola materna e non la guerra del golfo, ma lo stesso mi pare di aver chiuso qualcosa di grande, di sereno e tranquillo: mi si conceda, perciò, questo bailamme di sorridente tristezza davanti a cui mi sento inerme e curiosamente indifeso; un’emozione banale che riconosco come altamente retorica e che, sospetto, milioni di genitori prima di me hanno già provato e, probabilmente, amministrato meglio, con piglio più autoritario o maturo, ma la verità è che anche questa, come quasi tutte le leggere malinconie, i piccoli lasciti che la bellezza impone, quando si interrompe o svanisce o diventa altro, non mi dispiace del tutto.
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