Cucino per mia figlia (anche) per costruire il suo ricordo di me

Potessi, cucinerei sempre. Quando cucino non guardo il cellulare, non rispondo al cellulare, non penso al mio lavoro, non penso a niente che non sia la cucina; è l'unica attività a tal punto esclusiva, l'unica che riesca a farmi stare così perfettamente dentro me stesso.

In casa non toccatemi i fornelli: cucino io.
Il mio spazio, il mondo, la cucina. 

Cucino per mia moglie, cucino per mia figlia, cucino per gli ospiti.
La cucina è il mio yoga, il mio zen. Anziché vestirmi da mimo e fare tai-chi in un parco, preso per il culo anche dalle zanzare, io cucino. Potessi, cucinerei sempre.

Quando cucino non guardo il cellulare, non rispondo al cellulare, non penso al mio lavoro, non penso a niente che non sia la cucina; è l’unica attività a tal punto esclusiva, l’unica che riesca a farmi stare così perfettamente dentro me stesso.

Sono un integralista del cibo: se non impiego almeno quattro ore a cucinare qualcosa, nemmeno mi ci metto. È fast food. Non esiste niente di veloce in cucina: anche la pasta al tonno per me è “scientifica”.

La mia pasta aglio, olio e peperoncino impiega almeno due ore per essere completata e comprende minipimer, aglio in olio-cottura a sessantacinque gradi per almeno un’ora e mezzo e, generalmente, la standing ovation di tutto il palazzo. Sono ambizioso: un piatto preparato da me, uno qualunque, esigo che diventi il termine di paragone per quel piatto.

La solitudine dello “chef”

Io cucino e questo a volte è oggetto di ammirazione, sorpresa, interesse.
Mi capita di venire occhieggiato più o meno come un turista osserva tappeti in una medina di un paese nordafricano, lo stesso mix di curiosità, rabbia colonialista, stupore e un non so che di inquietudine. Il fatto che io cucini copre tutto il resto, lo annichilisce.

Per tutti io sono “lo Chef”. Per la verità non sempre mi fa piacere. Quando chiusi il mio primo contratto con il più grande gruppo editoriale italiano, passati quei due o tre secondi di bravo, complimenti, te lo sei meritato, due o tre secondi, ripeto, subito mia moglie e gli amici si concentrarono sull’unica domanda per loro importante: “Sì, vabbè, ma stasera che cosa cucini?”.

Prozac e mioglobina

Questo quando non mi prendono direttamente per pazzo. Mi è capitato di cuocere un pezzo di carne anche per dieci ore. La mia pizza se non matura almeno due giorni non la riesco nemmeno a chiamare pizza. Non posso più andare a mangiare fuori: capto errori disastrosi, pressappochismo e dabbenaggine anche nei ristoranti migliori.

Nessuno vuole più la mia compagnia a tavola. Tutti si alzano con una scusa quando tocca a me ordinare. Divento pedante, me ne rendo conto. Un po’ saccente.

Mi infastidisco se sento parlare di bistecca “al sangue”. «Quella è mioglobina, ignorante! Una proteina! Ti risulta che i cadaveri contengano sangue?», però ci arrivo da solo che chiedere al cameriere una bistecca senza denaturazione della mioglobina sarebbe troppo, quindi mi adeguo, però una scia di malumore rimane.

La vita di chi cucina è una vita di solitudine.
A volte me ne sto lì, all’ora di cena, semmai sono nove ore che sto davanti ai fornelli, e mia moglie, poveretta, anche lei appena rientrata in casa dopo undici ore di ufficio e riunioni, che cosa nota, come prima cosa? Non il sottoscritto, bello come il sole, con nove padelle in equilibrio, tre pentole, la tavola apparecchiata e un sorriso da perfetto #carlocracco, bensì la puzza, “Che puzza! Cos’è?”, per poi chiosare, subito dopo, che tanto non ha fame, arrivederci e grazie, via sotto la doccia, ah ma non me la prendo mica, no no, per niente, il freezer lo hanno inventato apposta, dico per congelare gli alimenti avanzati, non per occultare i cadaveri di mogli.

Per fortuna a un certo punto è arrivata mia figlia.

Tapioca e pop corn

Cominciare a cucinare per lei è stato salvifico, il primo atto concreto che mi ha restituito “visibilità”, che mi ha fatto di nuovo sentire presente, anzi esistente.

Non disponendo di utero, non disponendo di seno, di latte materno, non disponendo nemmeno di quell’enzima misterioso che trasforma nella frazione di un nanosecondo una donna in una madre, me ne sono rimasto in disparte a lungo, osservando mia moglie abbandonare il porto sicuro dell’essere figlia a favore delle acque misteriose della maternità con una sicumera e un istinto che io potevo solo sognare, limitandomi, se andava di lusso, alla pratica del ruttino o, nell’ultimissima fase dell’allattamento, a riscaldare i biberon alla giusta temperatura (senza nemmeno la possibilità di aggiungere un pizzico di noce moscata, me misero); poi ho cominciato a cucinare anche per lei, per questa bambina, le cose basilari dello svezzamento, un altro periodo abbastanza frustrante per un amante della cucina, barattolini, semolini, la misteriosissima tapioca.

Ho un ricordo piuttosto tenero e piuttosto goffo di questo padre ancora minuscolo, il padre neonato che ero, il quale spendeva volentieri interi quarti d’ora della sua vita nei vari reparti dei supermercati, a leggere tabelle nutrizionali, etichette, eccetera, a mollo in una specie di bolla gonfiata un po’ a frustrazione, un po’ a incanto, domandandosi quando avrebbe potuto cominciare a osare, a trasformare in realtà le decine e decine di ricette che già si era segnato, salvato, appuntato.

Quel padre è cresciuto, ha cominciato a camminare sulle sue gambe, la figlia anche, il suo sistema digestivo si è affinato, oggi i suoi pasti e i nostri pasti spesso coincidono, sono gli stessi, e questa è la prima cosa che mi ha commosso, quando è capitata, che stessi preparando, che potessi preparare la medesima pietanza per tutti e tre, per tutta la famiglia.

Un tempo bellissimo

È bello cucinare per la bambina: per lei non esiste “puzza”, mi guarda, osserva, qualche volta si scotta e piange, mi passa le cose, sa dove tengo le posate, sa dove sono i suoi piatti, i suoi bicchieri preferiti, a suo modo mi prende per il culo con domande ingenue che proprio nella loro “letteralità” celano il nucleo comico («Perché papà è sempre in cucina?»), da non molto ha cominciato a chiedermi piatti precisi, a reclamarli (il riso giallo, il riso rosso, gli gnocchi al pomodoro, l’uovo al tegamino, la frittata, le polpette, la pizza).

Mentre cucino (per il risotto non posso non impiegare meno di diciotto, venti minuti, mantecatura compresa, figlia mia è così che avrai imparato un giorno il concetto di pazienza) mi chiede “una cosa buona”, che è la sua variante di “aperitivo” o “antipasto”, e le “cose buone” possono essere: il formaggino, il prosciutto cotto a dadini, il parmigiano, una sottiletta tagliata a strisce i suoi amatissimi “crostini” (che vanno dai tarallini a, diciamo, qualsiasi cosa di piccolo faccia “scrock” sotto i denti), il finocchio, carote, fino alla temutissima richiesta di cioccolato/dolci/gelato da cui svicolare ha la complessità di una risoluzione ONU.

È un tempo bellissimo.
Qualche volta protesta, non è sempre facile.
Capita anche che dopo tanta fatica non mangi o si stufi dopo tre bocconi: ogni volta cerco di restare calmo ma non sempre ci riesco.

Non mi preoccupa che non mangi, naturalmente: mi interessa che non acquisisca cattive abitudini, che non sviluppi un rapporto col cibo basato sulla noia, sul poco interesse. Voglio che guardi, voglio che capisca che quella roba strana che ha nel piatto non è uscita così da una scatola e che non basta un click per poterla, be’, creare.

Mi piace pensare che in qualche recesso rettiliano del suo cervello in via di formazione esista comunque la consapevolezza che tutto questo lavoro, d’inverno, d’estate, è solo per lei. Che il suo papà lo fa per lei.

Non gratitudine, è ancora troppo piccola, inesperta, neutra, ma una parte di me, forse la meno disillusa, la più incantata, romantica, quella con cui più mi piace parlare, una parte che pensavo sepolta e che invece mia figlia ha riportato alla luce, una parte di me  vuole persuadersi — e ci riesce — che tali immagini stiano attecchendo — un uomo che agita padelle, che aggiunge del sale, che gira che soffia che assaggia — e un giorno costituiranno dentro di lei la forma migliore del padre, quella degna di essere ricordata.

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