
"Invito chi afferma 'Io non lo farei mai' a compiere il doveroso tentativo di comprendere coloro che hanno visto trasformarsi la scelta riguardo l...
Tempi, modalità e luoghi previsti dalla legge per interrompere volontariamente una gravidanza in Italia: aborto farmacologico, chirurgico o terapeutico.
L’Italia, con la Legge 194/78, garantisce il diritto delle donne di procedere ad una interruzione volontaria di gravidanza (nota anche come “Ivg”) in una struttura pubblica o convenzionata.
Si può effettuare un aborto entro i 90 giorni dal concepimento, mentre oltre questo termine – ed entro i 5 mesi di gestazione – si può ricorrere all’aborto terapeutico ma solo in casi particolari, in cui ci sia pericolo per la salute della mamma e del bambino se si continua la gravidanza.
Per poter abortire in Italia, la donna deve prendere appuntamento con il proprio ginecologo, oppure si può recare in un consultorio o in un ospedale, per un primo colloquio in cui oltre a certificare l’effettiva presenza della gravidanza viene espressa la volontà di interromperla.
Le ragazze minorenni devono essere accompagnate da un genitore oppure dal proprio tutore, ma possono rivolgersi anche ai Servizi sociali del loro comune di residenza qualora non vogliano informare i genitori.
Una volta concluso il colloquio con il medico la donna riceve un certificato per poter passare alla fase successiva, cioè l’interruzione di gravidanza. Tra il colloquio e l’ivg devono passare 7 giorni (come previsto dalla legge) per eventuali ripensamenti. Nel caso in cui ci si trovi in un caso di particolare urgenza il medico può invece autorizzare l’interruzione senza aspettare i 7 giorni.
Trascorsi i 7 giorni di attesa la donna può rivolgersi a una struttura pubblica o convenzionata per effettuare l’aborto, che sarà eseguito con diverse modalità a seconda dell’epoca gestazionale.
Se non sono trascorsi più di 49 giorni dal concepimento l’aborto avviene mediante la pillola RU486, o “pillola abortiva”, che si prende direttamente in ospedale dopo essersi sottoposte ad accertamenti. Alcune ore dopo l’assunzione della pillola RU486 alla donna vengono somministrate delle sostanze chiamate prostaglandine, che favoriscono la contrazione uterina e quindi lo svuotamento autonomo del materiale abortivo.
Le possibili controindicazioni dell’aborto farmacologico consistono in reazioni allergiche, emorragie uterine e mancata espulsione dell’embrione, per cui è previsto che la paziente resti sotto osservazione in ospedale per qualche ora. In ogni caso si può ricorrere, in alternativa, all’aborto di tipo chirurgico.
Se la gravidanza ha superato i 49 giorni la scelta dell’aborto chirurgico, o strumentale, diventa invece obbligata. In questo caso, la donna deve sottoporsi a un breve intervento in anestesia locale o generale che permette di rimuovere dall’utero il prodotto del concepimento.
Si utilizzano, a questo scopo, diverse tecniche: sempre più utilizzata è l’isterosuzione, che è consigliabile solo nelle prime 8 settimane e consiste nell’aspirazione del materiale embrionale (e dell’endometrio) attraverso una cannula collegata a una pompa a vuoto e inserita nell’utero. In alternativa si ricorre alla pratica comunemente nota come “raschiamento”, che di solito avviene in anestesia locale.
In determinati casi, la legge 194 permette di abortire anche dopo il novantesimo giorno di gravidanza. Si parla, in questa situazione, di aborto terapeutico (o interruzione terapeutica della gravidanza), perché è ammesso solo se la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, oppure se, ad esempio per la comparsa di gravi complicazioni a carico della salute del feto, sussista un pericolo per la sua salute fisica o psichica.
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Per accedere questa procedura, oltre alla richiesta della paziente, occorre che uno specialista attesti che effettivamente il prosieguo della gravidanza rappresenterebbe un rischio per la salute – psicologica o fisica – della donna.
L’aborto terapeutico in Italia è di norma ammesso non oltre la 22^ settimana di gestazione, e avviene mediante la somministrazione di farmaci che causano la dilatazione della cervice uterina e l’avvio delle contrazioni, innescando di fatto un vero e proprio travaglio.
Se il feto dovesse sopravvivere al parto indotto, il personale medico ha l’obbligo di rianimarlo e fare tutto il possibile per tenerlo in vita.
Nonostante la legge, non sempre, soprattutto nelle regioni centrali e meridionali, abortire in Italia si rivela un percorso facile, tutt’altro. Al di là delle possibili pressioni psicologiche sulla paziente che sceglie di abortire, molte donne si trovano di fronte alla impossibilità materiale di prenotare in tempo utile una interruzione volontaria di gravidanza per le lunghe liste d’attesa causate dall’alto numero di ginecologi obiettori.
Una scelta privata, personale e insindacabile: quello dell'interruzione volontaria di gravidanza è un diritto delle donne e come tale va garantito...
Non sono rari i casi di “pellegrinaggi dell’aborto” in cui le pazienti sono costrette a spostarsi in altre regioni per potersi sottoporre entro i termini di legge alla Ivg. È importante quindi rivolgersi il prima possibile al proprio medico o a un consultorio di zona, avendo ben chiari quali sono i propri diritti, sanciti dalla legge.
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