Non ho mai pensato di interrompere una gravidanza. Neanche quando avevo 21 anni, ero una studentessa fuori sede con il ciclo in ritardo di 14 giorni e singhiozzavo da sola nel bagno di una casa condivisa, con un test di gravidanza ancora sigillato stretto tra le mani tremanti.

Sapevo che non avrei abortito quel feto – che alla fine non esisteva – perché dal mio personale, soggettivo e del tutto opinabile punto di vista, sarebbe stato preferibile affrontare una maternità non programmata, e per tanti versi inopportuna, che una IVG.

Una scelta personale e insindacabile

Ma era il mio sentire, individuale, privato e parziale (del tutto indipendente dalla religione, dall’etica e anche dalla scienza, in un certo senso: puro istinto, personale, insindacabile e mio). Perché in fatto di IVG, è proprio questo, il punto: la scelta – sofferta o meno – non può che essere individuale e privata.

Non necessita l’altrui approvazione, e neanche la comprensione di terzi. Non può averle, in effetti, in un caso o nell’altro. Perché, semplicemente, nessuno può davvero mettersi nei panni di un’altra persona in circostanze tanto delicate, complesse e di portata così definitiva come una gravidanza non programmata, non desiderata, o che procede in modo diverso rispetto alle aspettative.

L’insensatezza di una maternità imposta

È per questo che biasimare una donna che scelga di interrompere una gravidanza, o tentare di dissuaderla a tutti i costi, mi è sempre parso meschino, oltre che insensato. Perché parte dalla pretesa arrogante di imporre al prossimo i propri criteri, le proprie convinzioni, il proprio personale punto di vista. Di rendere universale il soggettivo.

E di farlo a proposito di una scelta irreversibile come quella della maternità, che tra l’altro avrebbe implicazioni definitive e potenzialmente pesantissime anche sul nascituro. Diventare genitori dovrebbe essere una scelta ponderata mille volte, e anche in queste circostanze non esime da errori (talvolta drammatici), ripensamenti, rimpianti e frustrazioni che in qualche modo finiscono col ripercuotersi anche sui figli. Non oso immaginare le conseguenze – su tutte le persone coinvolte – di una maternità imposta per “dovere morale”, per timore del giudizio sociale o, addirittura, per la mancanza di alternative praticabili.

Quello che vorrei per mia figlia

Se penso al futuro di mia figlia, mi auguro per lei in una reale e piena libertà di scelta. Che parta da una corretta e completa informazione, perché non esiste libertà senza conoscenza. Una informazione fondata su basi razionali e scientifiche, che sia esente da strumentalizzazioni in un senso o nell’altro (un feto di 12 settimane, tanto per dire, non è un “grumo di cellule” e non è un “bambino”, ma, appunto, un feto di 12 settimane).

Una libertà di scelta che, in quanto tale, preveda delle alternative ben comunicate, facilmente accessibili, esenti a loro volta da giudizi e pressione sociale: un accesso precoce e consapevole alla contraccezione, una profonda conoscenza del proprio corpo, acquisita anche sui banchi di scuola, un atteggiamento responsabile e collaborativo da parte dei partner maschili, la semplificazione del processo di adozione, magari anche a gravidanza ancora in corso. La disponibilità di un reale sostegno – economico, strutturale, normativo – alla maternità e alla genitorialità in genere.

E, naturalmente, l’applicazione piena della legge, che già esiste, anche se in tanti sembrano volerlo dimenticare, in materia di interruzione volontaria di gravidanza: la possibilità di esercitare il proprio diritto di scelta senza scontrarsi con una obiezione (che spesso è di opportunità o di facciata), con l’ostilità manifesta o latente del personale medico, con il biasimo più o meno espresso di una parte dell’opinione pubblica.

La possibilità di scegliere in coscienza il meglio per sé, e anche, di riflesso, per quel figlio “in potenza”. Senza sentirsi in colpa. E senza doversi sentire “strane” perché non ci si sente in colpa.

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