Mamme troppo apprensive, attenzione! Potrebbero aprirsi le porte del carcere per chi sottopone a troppe cure e attenzioni il proprio bambino, finendo per limitarne lo sviluppo psicofisico a furia di tenerlo lontano dal resto del mondo, ovvero dall’asilo, dagli altri bambini e, come in questo caso, anche dal padre, separato dalla donna.

Una mamma di Ferrara, infatti, è stata condannata in via definitiva dalla Cassazione a un anno e 4 mesi di reclusione, pena coperta dal condono ma senza la concessione della condizionale, per aver riempito di troppe cure al chiuso delle “mura domestiche” il figlioletto R. C., nato nel 1997, fino al 2004. Insieme alla mamma oppressiva, Elisa G., è stato condannato alla stessa pena condonata anche il nonno, Gigetto G.

=> Disaccordo su gestione ed educazione

Loro insistono nel chiamarlo “amore”. Tutti i giudici che in questi anni si sono occupati del caso (primo grado, Appello e ora la Cassazione) usano però un altro termine: “maltrattamenti”. Un amore soffocante come una gabbia (la Suprema Corte parla di “iperprotezione e ipercura”) quello che la madre e il nonno hanno riversato sul bambino, che ora ha 14 anni, e frequenta a Ferrara il primo anno di una scuola superiore, ma che da quando portava i pantaloni corti ha vissuto in una sorta di invisibile bozzolo, come se un muro lo dividesse dal resto del mondo. Un “amore” talmente sbagliato da trasformarsi a detta dei giudici in violenza nei confronti di un ragazzino che, segregato per anni tra le mura domestiche e mutilato nelle sue capacità relazionali, “in prima elementare — racconta l’avvocato Andrea Marzola, che da anni lo rappresenta — non sapeva correre, aveva la capacità motoria di un bimbo di 3 anni e, nel corso della crescita, ha continuato a pagare un prezzo molto alto in termini psico-fisici”.

Mamma Elisa e nonno Gigetto (quest’ultimo “figura autoritaria, con un grande ascendente sulla figlia” racconta l’avvocato Marzola) si sono sempre ribellati all’idea che il loro comportamento potesse essere equiparato alla violenza: “Il ragazzino non si sente una vittima” si sono difesi in ogni sede. E quando i giudici li hanno invitati a prendere atto delle oggettive difficoltà del ragazzo, la risposta è stata sempre la stessa: “Le nostre intenzioni sono lodevoli…”.

R.C., a forza di essere trattato come se fosse sempre poco più di un neonato, non aveva nemmeno imparato bene a camminare. I primi coetanei li aveva visti solo a sei anni, quando aveva messo piede alla scuola elementare. Il regime instaurato dalla madre e dal nonno aveva finito anche per cancellare del tutto la “figura paterna”. Al padre separato del piccolo venivano impediti gli incontri con il bimbo. Anche il cognome paterno era stato soppresso e il bambino rispondeva all’appello con il cognome della madre.

Ora la legge ha stabilito che la “gabbia” del ragazzino vada finalmente aperta. “L’ipercura – afferma Francesco Montecchi, neuropsichiatra infantile – è una grave forma di abuso sui bambini, di cui si parla ancora poco ma che determina conseguenze molto serie per lo sviluppo psico-fisico dei piccoli. Molti di questi bambini, infatti, sviluppano forme di psicosi gravi crescendo, e sono completamente disadattati”.

È normale guardare il proprio piccolo crescere e sentire la necessità di proteggerlo da tutto e tutti, ma ciò non deve ostacolarne la crescita, permettendogli di fare le sue esperienze (ovviamente in rapporto all’età). Spesso però non è così semplice trovare una misura. È proprio vero: il lavoro di genitore è il mestiere più difficile del mondo, e s’impara solo sul campo e sbagliando. Ma attenzione, gli errori potrebbero essere pagati cari…

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