Parto indotto: perché e quando si ricorre all’induzione del parto

Per ottenere un travaglio attivo può essere necessario, se questo non avviene spontaneamente, ricorrere all'induzione del parto. Scopriamo vantaggi, rischi, controindicazioni e quali sono le tecniche per farlo.

L’induzione del travaglio di parto (ITP) è, come definito nel consensus paper a cura della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO), un intervento medico finalizzato a interrompere l’evoluzione della gravidanza con l’obiettivo di ottenere un travaglio attivo. Il cosiddetto parto indotto, che può essere ricercato mediante diversi metodi e procedure, non è esente da rischi (così come l’attesa dell’insorgenza spontanea del travaglio), è una realtà articolata che merita attenzione anche nella prospettiva di evitare che possa essere considerata una procedura di routine in sala parto.

Il timore non è campato in aria se, come riportato dalla Fondazione Umberto Veronesi, da uno studio condotto negli Stati Uniti sembra emergere la volontà di ricorrere al parto indotto in quanto questo ridurrebbe i rischi di morte perinatale e di complicanze ostetriche.

In realtà, l’induzione del parto dovrebbe essere presa in considerazione solo in presenza di condizioni che determinano un rischio per la donna o il nascituro, e non vi può essere la necessità di indurre il parto a scopo profilattico. Farlo significherebbe eseguire una procedura di medicalizzazione del parto non necessaria, anche considerando come il parto indotto rende il travaglio più lungo e doloroso.

Perché e quando si ricorre al parto indotto?

L’offerta (deve esserci sempre il consenso della donna) del parto indotto è giustificata in una gravidanza a termine come prevenzione del post-termine (una gestazione che supera le 42 settimane), in presenza di una rottura delle membrane a termine (PROM) e in presenza della morte endouterina fetale.

Anche altre complicanze della gravidanza sono spesso considerate indicative per il ricorso all’induzione del parto: peeclampsia, ritardo di crescita intrauterino (IUGR), neonati piccoli per l’età gestazionale (GSA), colestasi gravidica e diabete.

L’indicazione generale resta comunque quella di valutare il ricorso all’induzione di parto solamente quando si ritiene che questa procedura provochi benefici materni e fetali maggiori e rischi significativamente minori rispetto all’attesa dell’insorgenza spontanea del travaglio. Il parto indotto, quindi, non è una scelta in più ma un’opportunità cui ricorrere in presenza di specifiche condizioni.

L’induzione del parto è invece controindicata, riporta il portale WebMD, quando si ha una placenta previa, si è state sottoposte precedentemente a un taglio cesareo o un intervento chirurgico importante, vi è una malposizione fetale, vi è un’infezione da herpes genitale o vi è un prolasso del cordone ombelicale.

Come funziona l’induzione del parto

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Fonte: iStock

L’induzione del travaglio, spiega il Manuale MSD, consiste nella stimolazione delle contrazioni uterine con lo scopo di consentire un parto naturale.

È importante sottolineare come per indurre il travaglio è necessario che il collo dell’utero sia favorevole, quindi con una sufficiente dilatazione e appianamento. In caso di collo sfavorevole (chiuso, allungato e fisso) l’obiettivo è innanzitutto quello di favorirne la dilatazione tramite metodi farmacologici o meccanici.

Il parto indotto è una procedura medica a tutti gli effetti e vi si ricorre in presenza di condizioni che giustifichino questa scelta; è da distinguere quindi da tutti quei “metodi casalinghi” di stimolare il travaglio tramite l’attività sessuale (che comunque contribuisce nell’ammorbidire e maturare la cervice) o l’assunzione di particolari cibi e alimenti.

Parto indotto: metodi e tecniche

Il parto può essere indotto mediante metodi farmacologici (misoprostolo, prostaglandine e ossitocina), metodi meccanici (cateteri trans-cervicali) o metodi chirurgici (amniorexi e scollamento delle membrane).

Metodi farmacologici

Misoprostolo

Il misoprostolo è un analogo sintetico della prostaglandina e per il parto indotto rispetto ad altre tipologie di prostaglandine si è rivelato più efficace nella riduzione della durata del tempo che trascorre tra l’induzione il parto, maggiore possibilità di ottenere un parto vaginale entro 24 ore, maggiore sicurezza in caso di rottura prematura delle membrane (PROM) e minor rischio di taglio cesareo.

Per il parto indotto si utilizza il misoprostolo orale 200 mcg prevedendo un dosaggio di 25 cmg ogni due ore fino a un massimo di 8 somministrazioni. Dal 2021 è stato introdotto anche un preparato in compresse (Angusta®) che, a differenza dell’altro, non necessita di alcuna preparazione.

Prostaglandine

In Italia le preparazioni autorizzate dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) sono quelle contenenti un derivato naturale della prostaglandina E2. In questo senso è disponibile il Dinoprostone, disponibile sotto forma di dispositivo vaginale a rilascio controllato, gel intravaginale e gel intracervicale. È il metodo più diffuso e non ci sono evidenze su quale sia la modalità di somministrazione migliore.

Ossitocina

L’ossitocina è il farmaco più comune utilizzato per l’induzione del travaglio e può essere utilizzo in infusione continua o pulsatile. Esistono due protocolli di dosaggio (alto dosaggio con dose d’incremento di 4-6 mU/min ogni 15-40 minuti e basso dosaggio con dose d’incremento di 1-2 mU/min ogni 30-60 minuti) e le raccomandazioni sono quelle di somministrare l’ossitocina mediante una pompa di infusione che consenta un controllo preciso del flusso erogato.

Metodi meccanici

I metodi meccanici stimolano la produzione endogena di prostaglandine tramite lo stiramento delle membrane amnio-coriali e delle cellule miometriali e favorendo la produzione di ossitocina endogena. I metodi più utilizzati sono l’utilizzo di dilatatori igroscopici e di cateteri trans-cervicali.

Metodi chirurgici

La rottura artificiale delle membrane (amniorexi) è una procedura ostetrica che si esegue per il parto indotto con l’obiettivo di aumentare le contrazioni e ridurre la durata del travaglio. È una procedura non sempre possibile (come nel caso di una placenta previa e di infezione HIV e infezioni genitali in atto) ed eseguibile quando la cervice è favorevole e le membrane amnio-coriali sono accessibili.

Anche lo scollamento delle membrane provoca un aumento della produzione di prostaglandine. È una tecnica associata a dolore, piccoli sanguinamenti e comparsa di contrazioni irregolari ed è utilizzata in quanto riduce la frequenza delle gravidanze post-termine, riduce il ricorso all’induzione farmacologica e non vi è alcun aumento del rischio di morbilità materno-fetale.

Come prepararsi al parto indotto?

La possibilità di dover indurre il parto è spesso improvvisa non essendo una procedura di routine, ma una realtà che si verifica solamente in presenza di specifiche condizioni. Essendo, come abbiamo visto, una procedura che si basa su diverse tecniche, può essere utile informarsi per tempo e indicare nel piano del parto quali procedure si vogliono evitare nel caso ricorra la necessità di dover procedere con un parto indotto.

Il consenso informato della donna è sempre un elemento imprescindibile e, per la propria tutela, è consigliato evitare di prendere decisioni nei momenti difficili e intensi del travaglio nei quali la lucidità potrebbe venire meno.

Durata, rischi e conseguenze

Un aspetto importante da sottolineare sul parto indotto è legato al fallimento del tentativo di interrompere l’evoluzione della gravidanza per ottenere un travaglio attivo. Le linee guida non definiscono nel dettaglio quanto tempo si dovrebbe aspettare prima di concludere che l’induzione del parto sia fallita.

Una definizione considerata ragione dall’Associazione Ginecologi Universitari Italiani (AGUI) di induzione fallita è quella nella quale non si riesce a raggiungere una fase attiva del travaglio dopo almeno 12 ore di infusione di ossitocina e membrane rotte (spontaneamente o tramite amnioressi).

Le probabilità di successo dell’induzione del parto si valutano mediante il Bishop pelvic score system. Come spiegato in un articolo dell’Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani (AOGOI), si tratta di un metodo che prende in considerazione la lunghezza, la posizione, l’appianamento e la consistenza della cervice, assegnando un punteggio tale da consentire una standardizzazione della valutazione della maturazione cervicale. Un punteggio elevato del Bishop pelvic score system è legato a una maggiore probabilità di successo dell’induzione, mentre un punteggio inferiore a 3 è speso associato a un aumento del ricorso al taglio cesareo.

Non c’è quindi una durata standard dell’induzione del travaglio e del parto indotto; il Cleveland Clinic indica come nella maggior parte dei casi si passi al travaglio attivo entro 24 ore. Inoltre il parto indotto può essere legato a contrazioni più dolorose tali da determinare una maggiore necessità di ricorrere alle tecniche di partoanalgesia.

Come anticipato, il parto indotto non è esente da rischi e la differenza tra questi è legata prevalentemente al metodo utilizzato per l’induzione. Tra i principali rischi c’è la tachisistolia (anormale o eccessiva contrattilità uterina), rottura dell’utero, embolia del liquido amniotico, effetti collaterali dell’ossitocina (tra cui vomito, nausea, vampate di calore e instabilità cardiovascolare), iperbilirubinemia neonatale, emorragia post partum, liquido amniotico con presenza di meconio, infezioni materne e neonatali e perdite ematiche vaginali.

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