La ricerca scientifica ha fatto passi da gigante e sta rendendo curabili malattie che prima non lo erano, o quanto meno ad alleviare i sintomi a chi ne soffre. É il caso dell’epidermolisi bollosa, conosciuta anche come “sindrome dei bambini farfalla“, problema ereditario della pelle che può finire per coinvolgere anche le mucose. Il nome deriva dalla condizione dell’epidermide dei malati: questa prevede la comparsa di lesioni e bolle che si manifestano spontaneamente, anche al minimo tocco.

In genere a esserne interessati sono soprattutto mani e piedi ed è per questo che può diventare invalidante.

La pelle dei bambini farfalla è solitamente resistente a colpi, abbracci o sfregamenti a causa di proteine ​​che fungono da collante tra il derma e l’epidermide, come il collagene. “Se queste proteine non sono presenti o non riescono a funzionare correttamente, la pelle diventa fragile, appunto come le ali di una farfalla” – sono le parole a El Pais di Evanina Morcillo Makow, direttrice di DEBRA, Butterfly skin, l’unica associazione che opera in Spagna per migliorare le condizioni di vita dei malati.

In molti casi il disturbo inizia a essere evidente sin dalla nascita ed è per questo che conviverci appare tutt’altro che semplice. Fortunatamente, però, non tutto sembra essere perduto. Un articolo pubblicato a marzo 2022 sulla rivista Nature Medicine ha parlato infatti di una terapia genica che potrebbe essere risolutiva per le ferite dei pazienti.

Si tratta di una soluzione differente rispetto a quelle sperimentate finora e che prevede l’applicazione di una crema che trasporta un vettore virale, in questo caso il virus dell’herpes simplex, in grado di penetrare facilmente nelle cellule della pelle. Quando entra lo fa attraverso ferite aperte e fornisce loro due copie sane del collagene 7, la proteina di cui hanno bisogno le persone che soffrono di epidermolisi bollosa. Una volta che le ferite sono chiuse, secondo quanto precisato dalla ricercatrice Núria Tarrats, la pelle inizia a comportarsi come se fosse sempre stata sana.

I risultati emersi dallo studio sembrano essere davvero soddisfacenti, al punto tale da lasciare pensare che l’approvazione da parte degli studiosi della Stanford University e della Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia di regolamentazione dei medicinali degli Stati Uniti, possa essere ormai imminente. La data chiave potrebbe essere febbraio 2023. Da lì potrebbero passare solo pochi mesi per avere il via libera da parte dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA).

Tarrats, almeno per ora, preferisce essere prudente. “Alcune prove cliniche dimostrano che la terapia risulta essere efficace, nel migliore dei casi, per otto mesi. Scaduto questo periodo, si potrebbe valutare di riprendere il trattamento. Si potrebbe quindi pensare a una cronicizzazione della malattia, ma non a una cura definitiva”.

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