“A 22 anni, in perfetta salute, pensavo che rimanere incinta non sarebbe stato affatto difficile. Io e mio marito non ci siamo preoccupati per i primi tentativi a vuoto. Dopo tre anni però abbiamo deciso di consultare un ginecologo, mai immaginando di sentirci dire che qualcosa non andava. E invece“.

Il desiderio di avere un figlio, i tentativi e il tempo che passa, test e analisi mediche per capire se c’è un problema, il “problema” che forse c’è ma non si trova. Quindi la decisione di iniziare un percorso di procreazione assistita: Debora Caruso e suo marito l’hanno intrapreso due anni fa, e lei, che oggi ha 27 anni, ha scelto di metterlo nero su bianco, in un flusso di pensieri diventato un diario diventato poi un libro autopubblicato, “L’Aurora in un diario – Il racconto della mia fecondazione assistita“.

Io, giovane donna di 25 anni, che dalla vita avevo ricevuto dei doni immensi e delle soddisfazioni bellissime, con un marito eccezionale accanto, con la grande voglia di diventare mamma, in quel momento non potevo andare avanti. Il motivo non era ben chiaro, ma per il momento non mi era permesso di dare amore ad un figlio mio, di sentire il suo odore, tipico dei bambini appena nati, di toccare delicatamente il suo profilo levigato con un dito e di soffermarmi a guardarlo per tempi interminabili senza dire una parola. E poi non mi era permesso di vedere mio marito padre, sicura del fatto che sarebbe stato il migliore al mondo, che lo avrebbe guardato con quegli occhi verdi pieni d’amore come tutti i giorni guarda me. […] Ho preso per mano mio marito e ho fatto un passo, da quel momento non ci siamo più fermati. La strada da seguire ci era stata indicata, ci restava solamente una telefonata e prendere appuntamento per un colloquio in quella famosa struttura specializzata nella PMA – Procreazione medicalmente assistita. Parole lunghe e difficili, proprio come la strada che avevamo deciso di percorrere.

Debora, che oggi sta scrivendo il seguito del suo percorso in un secondo diario, ci racconta:

Dagli esami che abbiamo fatto è emerso che era tutto a posto tranne una piccola malformazione negli spermatozoi di mio marito, ma ci hanno detto che il problema non era rilevante. Il medico ci ha comunque suggerito di informarci riguardo la Pma, perché un figlio sarebbe potuto arrivare subito oppure mai: ‘Fate prima così, se volete averlo subito’. Io non vorrei diventare mamma a 40 anni, così abbiamo deciso di cercare una clinica per la fecondazione assistita“.

Per Debora è iniziata così una serie infinita di esami, e con la stimolazione ovarica, convinta, dice, “che ce l’avremmo fatta al primo tentativo perché ero giovane e in salute. Ma così non è stato”.

Il suo però non è un viaggio di (sola) sofferenza: tra le righe del diario si trova una buona dose di autoironia, che è stata “un grande aiuto. Ridevo molto di me, così ho iniziato a pensare che avrei potuto aiutare altre donne che stavano vivendo la mia stessa situazione.”

“Spesso le donne provano rabbia, ma non serve”

Tra chi attraversa speranze e delusioni nei percorsi di Pma Debora riconosce “molta, molta rabbia. Tante donne si sentono malate, si demoralizzano. Penso invece che questo percorso vada vissuto come qualcosa di bello: d’altronde stiamo cercando di avere dei figli. Siamo nate un po’ più sfortunate delle altre, ma raggiungere il risultato sarà emozionante”.

Per Debora il racconto della propria storia è una terapia per sé e un supporto per le donne che stanno percorrendo una strada simile. E sono tante: più di 74mila coppie ogni anno si rivolgono a centri di Pma in Italia. Nel mondo, dall’avvio delle procedura per la fecondazione in vitro 40 anni fa, sono nati oltre 8 milioni di bambini. Ma a chi non riesce ad avere un figlio

mi sento di dire – dice Debora – che noi nasciamo già mamme anche se non abbiamo figli nostri. Non dobbiamo arrabbiarci con noi stesse se non abbiamo figli. Possiamo essere madri di qualsiasi cosa, che siano i nostri fratelli o i nostri compagni o un animale. A volte siamo madri dei nostri stessi genitori.  Non serve arrabbiarsi con il mondo se non si riescono ad avere dei figli, né sentirsi vittime: noi donne della fecondazione assistita siamo perennemente arrabbiate, ma perché? Bisogna imparare ad elaborare la situazione e accettarla.

“Devi accettare il fatto che potresti non avere figli”

E poi c’è il giudizio degli altri. Il controllo, spesso a fin di bene. L’interesse a volte indelicato, la curiosità che rischia di ferire, seppure inconsapevolmente. “Tanti mi chiedevano ‘sei incinta?’ perché durante la stimolazione le mie ovaie si sono ingrossate tanto da vedersi anche da fuori. Ma no, non ero incinta. Oppure mi dicono: ‘Allora, questo figlio?’ Così ho iniziato a rispondere che no, nessun figlio. Non posso averne, dico. Così, se poi arriverà, sarà una bella sorpresa. Ma nel frattempo alleggerisco la troppa tensione“.

La sofferenza si sente, è innegabile, ma non diventa ossessione: “Prima di iniziare questo percorso devi essere emotivamente pronta a farlo e devi mettere in conto anche il fatto che i figli potrebbero non arrivare. Se non sei pronto emotivamente ti butti sempre più giù ad ogni tentativo fallito“.

“È un percorso che porta via emozioni, tempo e salute”

I tentativi di una coppia alla ricerca di un figlio tramite la Pma trascorrono tutt’altro che indolori, e non solo per le difficoltà emotive a cui si è sottoposti. “Cercare una propria tranquillità – spiega Debora – è fondamentale, perché questo percorso porta via tante emozioni, tempo e salute: i cicli di ormoni non fanno bene al nostro corpo. A questo si aggiungono i costi finanziari, perché la fecondazione assistita, soprattutto se è svolta privatamente, non è certo economica“.

Dopo il primo e il secondo ciclo di trattamenti, racconta ancora, c’è stato un attimo di sollievo: “Inaspettatamente 3 mesi fa sono rimasta incinta, senza fecondazione artificiale. Ero incredula. Subito però ci è stato detto che non c’era l’embrione ma solo la camera gestazionale. Ho fatto il raschiamento ma non mi sono demoralizzata: invece di peggiorare sono migliorata, ho letto questo episodio come una rinascita. Io e mio marito abbiamo anche deciso di tornare a viaggiare come un tempo, la viviamo in modo più sereno e libero“.

Debora ha deciso di aspettare alcuni mesi prima di riprendere il terzo ciclo “per vedere se succede il miracolo”. Ha anche deciso che, nel caso in cui i tentativi non riuscissero, “mi fermerò: le terapie hanno un impatto sulla salute e penso che un figlio non sia un trofeo da avere a tutti i costi. Se non arriverà lo accetterò“.

“Ho ancora la speranza di vedere la ‘mia’ Aurora”

Mi è sempre piaciuto guardare le immagini dell’aurora boreale, il colore verde mi mette voglia di respirare, di libertà. Aurora sarebbe poi il nome che darei a mia figlia se fosse femmina” da qui il titolo del libro, “Aurora in un diario”, mentre Debora, che pure accetta l’idea di non riuscire, forse, a diventare mamma, mantiene la speranza di vedere la ‘mia’ Aurora“.

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