La celebre tragedia di Euripide Medea è stata presa a modello per tradurre in psicologia gli atteggiamenti manipolatori delle madri nei confronti dei figli e spiegare la genesi dell’infanticidio.

Si parla di sindrome di Medea quando una madre che si trova in una situazione conflittuale con il partner utilizza il proprio figlio come strumento di potere e rivalsa sul coniuge, arrivando nei casi estremi addirittura all’infanticidio.

Cos’è la sindrome di Medea?

L’espressione “sindrome di Medea” ha origine dall’omonima tragedia di Euripide, e indica l’uccisione fisica dei figli da parte della madre.

La madre, che per qualche motivo è stata ferita o non regge il peso psicologico ed emotivo che la gravidanza e il bambino hanno fatto piombare nella sua vita, in un delirio di onnipotenza uccide il figlio (o feto), diventato ormai solamente uno strumento di potere e rivalsa.

Si parla più generalmente di “complesso di Medea” per descrivere il comportamento materno finalizzato alla distruzione del rapporto tra padre e figli dopo le separazioni conflittuali o vissute dalla madre come un’ingiustizia.

Si tratta quindi di un’uccisione che da reale diventa simbolica; pur non sopprimendo fisicamente la prole, la donna mira a sopprimerne il legame con il padre, con lo scopo di ferirlo e potersi finalmente vendicare di lui. Oggi si usa l’espressione “sindrome di Medea” per riferirsi anche a questa casistica.

Le madri affette da questo disturbo sono mosse dalla convinzione di poter attuare una definitiva vendetta. Sul piano sociale, si tratta di una forma di difesa in risposta a un mondo aggressivo che non valorizza la funzione materna; sul piano personale, di una punizione per compagni ritenuti assenti o colpevoli.

Talvolta il meccanismo della sindrome di Medea può innescarsi già in gravidanza e dunque indirizzarsi non al neonato ma al feto. La sindrome operante già in utero può spingere la madre ad abortire volontariamente, per futili motivi o per rivalsa verso il marito.

Nei futili motivi si inserisce l’impossibilità della donna nell’accettare il sacrificio del proprio tempo, del proprio corpo, della carriera, dei propri affetti e relazioni; la rivalsa maritale può essere prodotta da un tradimento o una separazione.

Il mito greco di Medea

Abbandonata dall’amato compagno Giasone, Medea per vendicarsi uccide i figli da lui avuti. È la nota tragedia greca raccontata da Euripide nel 431 a.C.

Questa tragedia greca ci aiuta a capire i meccanismi pericolosi che possono innescarsi nella mente di una donna fragile e ferita, fino a diventare patologici. Medea si vuole vendicare di Giasone e del dolore che prova per il suo abbandono. Lo fa nel modo più orribile, uccidendo i loro figli, perché sa che è l’unico per annientarlo.

Medea incarna un personaggio debole ed emarginato in quanto donna, barbara, ed esule (perché ripudiata dal marito Giasone). Assomma tutte le caratteristiche peggiori attribuite a quel tempo dalla società. Euripide sottolinea l’ingiustizia di tale contesto sociale e la mancanza di rispetto per la sua persona.

Ma oltre a queste caratteristiche, Medea rappresenta soprattutto l’essere umano che diventa totalmente preda dell’irrazionalità, dell’istinto, e dell’ira. Medea infatti agisce in balìa delle sue passioni, del suo istinto di vendetta che alla fine si rivelerà rovinoso.

Tutta la sua irrazionalità viene però in un certo momento trasformata in un lucido e logico ragionamento; il pensiero razionale non fa altro che confermare ciò che è già stato suggerito dall’istinto e dalla rabbia interiori. La ragione, insomma, conferma la passione: entrambe coincidono nel male e conducono allo stesso terribile epilogo.

L’uomo, per quanto eroico, non può che soccombere di fronte a forze incontrollabili; resta una pedina che non può stabilire il proprio destino e non può arrivare al bene con la sola razionalità.

Euripide sembrerebbe voler esprimere solidarietà nei confronti di Medea, che non è mai dipinta come pazza o folle; la sua è una tragedia della sofferenza e della solitudine universali.

Origini della sindrome

Le madri vendicative che sviluppano la sindrome presentano disturbi della personalità con aspetti aggressivi, comportamenti impulsivi, tendenze suicide. Le loro relazioni affettive sono disordinate e conflittuali.

L’andamento della relazione della coppia gioca un ruolo importante nel potenziale sviluppo della sindrome. Spesso infatti è l’allontanamento emotivo o concreto del partner che risulta dilaniante per l’identità della madre borderline. Quando il rapporto diventa altalenante o si incrina, in quel momento la donna (Medea) percepisce il vuoto e l’abbandono (reale o percepito), del proprio compagno.

Tuttavia, una “madre Medea” non è facile da riconoscere. Può capitare che una depressione post parto non riconosciuta e non trattata colpisca i punti vulnerabili della madre al punto da trasformarsi gradualmente in sindrome di Medea.

Nel momento di rottura in una coppia, il ruolo di chi sta intorno alla situazione di separazione può fare la differenza e spegnere sul nascere il potenziale insorgere del disturbo.

Le madri tendono a chiudersi in se stesse. Stare vicino a queste persone, supportarle con aiuti concreti, alleviando una situazione di forte stress, solitudine, disperazione e rabbia, soprattutto dopo una separazione, può aiutarle a non perdere il contatto con la realtà. Questo è fondamentale per la salute delle mamme e aiuta a prevenire la potenziale nascita della sindrome.

Sindrome di Medea e depressione post partum

Esiste un collegamento tra la sindrome di Medea e la depressione post partum. Entrambi i disturbi colpiscono le donne particolarmente fragili in un momento di estrema vulnerabilità, quello successivo al parto.

La depressione post parto non è di per sé il segno di una malattia, ma della condizione che ogni maternità rappresenta: il sacrificio per l’altro. La maternità richiede di sacrificare il proprio tempo e spazio, il sonno, la carriera, gli affetti e le relazioni. In una società individualistica che lascia la donna sola ad affrontarlo, tutto questo può diventare insostenibile.

In quest’ottica, l’amore per un figlio non è mai disgiunto dall’odio che si può provare per il figlio. Spesso la madre prova sentimenti di colpa, vergogna e inadeguatezza per il ruolo di madre. Il fenomeno è riscontrato in circa il 10% delle donne che hanno appena partorito, con incremento del 30% se sono state colpite dalla stessa depressione in occasione del parto precedente.

La durata dei sintomi varia da qualche settimana a un anno col rischio di ricomparire. Il disturbo può diventare progressivamente più serio fino a configurare il quadro della psicosi post parto.

Compaiono paranoia, allucinazioni, tendenze suicide o omicide nei confronti del bambino. Soltanto nel 10-20% dei casi si tratta di vera e propria depressione post-partum e solo una o due donne su mille sfocia in psicosi, condizione in grado di portare all’infanticidio.

Diagnosi della sindrome di Medea

I criteri diagnostici di questa sindrome sono talmente vari da essere spesso assenti. Fondamentalmente si evidenziano tre fattori:

  • disturbi delle relazioni: instabilità relazionale, identità disturbata, sentimento cronico di vuoto;
  • disregolazione comportamentale: impulsività, comportamenti suicidari, atti autolesionistici;
  • disregolazione affettiva: instabilità affettiva, rabbia, paura dell’abbandono.

Il paziente borderline è particolarmente insofferente alle frustrazioni e il suo deficit di regolamentazione emotiva può portarlo a tradurre la rabbia in azioni distruttive.

Spesso le “Medee” non agiscono direttamente ma causano incidenti che portano alla morte del figlio rendendo accettabile a sé stesse la propria immagine.
Quasi sempre è presente l’amnesia, uno dei principali meccanismi difensivi della psiche per proteggersi da traumi devastanti e inaccettabili.

Trattamento della Sindrome di Medea

Ogni situazione di stress emotivo a cui la donna va incontro potrebbe essere supportata da una maggiore presenza del partner e della famiglia. Tuttavia, per la diagnosi e il trattamento della sindrome di Medea è fondamentale rivolgersi tempestivamente a uno psicologo.

L’abuso emotivo nei confronti dei figli inizia quando, durante una separazione conflittuale, gli ex coniugi coinvolgono i propri figli nelle loro discussioni, forzandoli a scegliere il genitore preferito, a parteggiare in favore di uno dei due.

L’intervento psicologico è volto al trattamento dell’accettazione della separazione, a contrastare il sentimento di inquietudine e annientamento che la donna avverte, e a elaborare il senso della perdita.

L’aiuto psicologico ed emotivo allevia le fatiche e alleggerisce il senso di solitudine e isolamento a cui è sottoposta la mamma durante il periodo post gestazionale.
Intervenendo in questi casi nell’immediato, si evita di dover affrontare situazioni drammatiche successivamente.

Sarebbe auspicabile un percorso di sostegno psicologico prima, durante e dopo la gravidanza perché spesso la cura farmacologica non è sufficiente ad aiutare la donna fragile a gestire le sue problematiche.

Seguici anche su Google News!
Ti è stato utile?
Rating: 4.6/5. Su un totale di 7 voti.
Attendere prego...

Categorie