“Essere mamma è il lavoro più difficile del mondo” : quante volte lo abbiamo pensato, lo abbiamo detto o lo abbiamo sentito dire da qualcuno, trovando quantomeno difficile non trovarci d’accordo con una certezza tanto granitica, che siamo mamme oppure no?

Di dubbi non ce ne sono molti: avere un figlio scombina le carte della nostra storia, modifica regole e prospettive, regala sorrisi con corollario di lunghe notti insonni e via dicendo. Ci sono i capricci e i pianti isterici, le preoccupazioni, le malattie, ancora preoccupazioni, i distacchi e qualsiasi genere di altra preoccupazione o timore ci passi per la testa. La paura: eccola lì, pronta a piombarci addosso quando abbiamo ormai gli occhi semichiusi e quasi riusciamo ad addormentarci dopo una giornata passata a garantire sopravvivenza e tutta la felicità che possiamo ai nostri scalmanati eredi.

Il pensiero che qualcosa vada storto non se ne va mai, rimane in agguato pronto a spuntare dall’armadio come i mostri che visitano i sonni dei nostri figli. Non smettiamo mai di pensare a loro e di preoccuparci per loro. Di rinunciare al sonno, alla pace mentale e alla tenuta dei nervi per loro.

Più ci sforziamo di garantire la loro incolumità più la barattiamo con un pizzico della nostra, ed è questo, ci diciamo, il senso dell’amore materno. È proprio così, e non può essere altrimenti.

Ma davvero la maternità è sinonimo di sacrificio? Davvero nel momento in cui scopriamo di aspettare un figlio firmiamo un contratto in bianco per il mestiere più difficile al mondo, senza stipendio, senza orari e senza diritti?

C’è un modo di raccontare la maternità che ci vuole perennemente combattive, mai arrese, sempre pronte a farci scudo del mondo per proteggere la cucciolata, costi quel che costi. Perché è quello che abbiamo scelto, è quello che facciamo: ci sacrifichiamo. Ma se non fosse per forza così? Se quel racconto potesse avere sfumature di ben altro genere, portando finalmente la discussione sul piano dei diritti e non solo dei doveri? Se, addirittura, più che di sacrificio si iniziasse a parlare di egoismo?

L’opinione-provocazione è apparsa sulle pagine del New York Times in un articolo dello scorso anno ma decisamente attuale, firmato dalla scrittrice Karen Rinaldi:

Definire la maternità “il lavoro più difficile al mondo” non coglie il senso della questione, perché avere e crescere dei figli non è un “lavoro”. Nessuno può negare il fatto che comporti sfinimento, paura e stanchezza. Far crescere una famiglia è duro, ma lo sono anche altri aspetti importanti delle nostre vite. […] Chiaramente crescere dei figli è una delle cose più importanti che facciamo (uomini e donne) ma questo non lo rende un lavoro. Un datore di lavoro paga per i servizi che il dipendente è d’accordo a fare. C’è un capo a cui il dipendente deve dare conto. Nel caso della genitorialità chi sarebbe? Questo non significa che non vogliamo supporto (congedo di maternità o paternità retribuito, orari di lavoro più flessibili, assistenza sanitaria). Ma dev’esserci un cambiamento culturale perché ci sia un cambiamento nelle politiche della maternità.

Anche il divario che esiste nel racconto della genitorialità di donne e uomini, sostiene Rinaldi, influisce sull’idea stessa della maternità. “Ai  papà ci si rivolge raramente, anzi quasi mai, nello stesso modo in cui ci si rivolge alle mamme. È culturalmente accettabile per gli uomini avere dei figli e una carriera senza dover scegliere tra una e l’altra. E questi pregiudizi di cui non si parla hanno radici profonde“.

Il papà come babysitter dei figli, tanto per dirne una: alzi la mano chi non ha mai cercato di giustificarsi (con se stessa o con altri) nel prendere una serata libera lasciando la prole “sola” con l’altra metà del cielo. Anche per questo, spiega Rinaldi

Se indichiamo la maternità come un privilegio spostiamo l’attenzione sulla madre, le diamo potere, celebriamo la sua autonomia piuttosto del suo sacrificio. Garantito, alcune di noi hanno più autonomia di altre. Ci sono molte madri che non avrebbero scelto la maternità, per motivi economici o personali. Eppure, mantenendo il nostro ruolo di madri e rifiutando i falsi elogi del martirio, riusciamo a dare potere a tutte le donne.

Oltre alle “differenze di genere” che persistono nel diverso ruolo – e nella diversa presenza – che si presuppone normale donne e uomini abbiano rispetto alla crescita dei figli, esistono anche altri motivi per cui definire la maternità un lavoro, continua l’autrice, “serve solo a mantenere una donna al suo posto. Le priorità delle donne che lavorano fuori casa sono messe spesso in discussione. È come se le donne fossero obbligate a scegliere tra l’ambizione (o anche solo la volontà di portare a casa uno stipendio) e la famiglia“.

Se iniziassimo a riferirci alla maternità “come al bellissimo, incasinato privilegio che è, e al prenderci cura dei nostri figli come alla cosa più amorevole e più egoista che possiamo fare“, allora forse, conclude Rinaldi, potremmo superare anche i pregiudizi che vogliono la donna costretta a compiere una scelta.

maternità-sacrificio

In un altro articolo pubblicato alcuni giorni fa dal Nyt, “Rebranding motherhood”, la scrittrice Diksha Basu sostiene che la maternità, e la genitorialità in genere, “è una scelta – come sposarsi, scrivere un libro o scegliere una città da chiamare casa – e come tutte queste scelte significa rinunciare alle altre possibilità. Perciò non è chiaro come questa scelta in particolare sia diventata sinonimo di sacrificio”.

Per questo motivo, invita Basu

Il ruolo di madre ha bisogno di un serio ripensamento. La paternità raramente riceve la stessa solidarietà un po’ ipocrita. Non c’è da stupirsi che la maggior parte delle mie amiche abbia scelto di non avere figli e le donne stanno iniziando a usare il termine “senza-figli” come se fossero libere da una malattia.

Ripensare il racconto stesso della maternità, dunque, per dare una scossa al perennemente incompiuto tema dei diritti delle donne: “Quando un’amica mi ha annunciato la sua gravidanza, subito dopo essermi congratulata ho ripensato a tutti gli avvertimenti che avevo ricevuto io stessa. Ho iniziato a raccontarle della privazione di sonno e dell’inutilità dei reggiseni per l’allattamento, poi mi sono fermata. ‘È un gran divertimento‘ le ho detto. ‘Sei la prima che mi dice una cosa del genere’, ha risposto lei. Forse dovremmo dircelo più spesso. Forse molte di noi vorrebbero avere dei figli se non fosse visto come un esercizio di sacrificio“.

Se la maternità è una scelta che non implica per forza rinuncia e sacrificio assoluti, allora quella distanza tra l’essere donna e madre può essere accorciata. Così Karen Rinaldi aveva concluso con un ammonimento:

Solo quando smetteremo di parlare della maternità come di un sacrificio potremo iniziare a parlare delle madri come meritano.

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