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Un fenomeno molto diffuso ma di difficile identificazione e contrasto: il mobbing. Evidenziamo qualche elemento utile a riconoscerlo e a contrastarlo prima, durante e dopo una gravidanza.
Si tratta di un fenomeno che già di suo interessa prevalentemente le donne ma che le rende ancora più esposte durante la gravidanza e il puerperio. In realtà è possibile e doveroso ampliare la prospettiva dell’analisi e prendere in considerazione, come evidenziato nel White Paper del New Women For Europe, anche tutte le condotte abusive dannose rivolte verso le donne anche per il loro semplice desiderio di avere figli.
Affrontiamo quindi tutti gli aspetti del rapporto tra mobbing e maternità andando a individuare le forme con cui questo fenomeno si manifesta e quali le tutele previste dalla legge.
Il termine mobbing, che deriva dall’analisi dei comportamenti aggressivi degli animali in branco, ha diverse definizioni. Quelle più utilizzata in ambito lavorativo, come la riporta il sito dell’Arma dei Carabinieri, è quello di:
una forma di violenza sul posto di lavoro consistente in comportamenti vessatori integranti un’aggressione sistematica, prodotta per una certa durata di tempo, posta in essere o da un superiore gerarchico (cd. bossing o mobbing verticale) o dai colleghi (cd. mobbing orizzontale) nei confronti di un lavoratore, con chiari intenti discriminatori e persecutori, finalizzati all’estromissione di questi dall’azienda mediante la progressiva marginalizzazione del suo contributo al processo produttivo e l’emarginazione dalla collettività degli altri dipendenti
Parliamo di un fenomeno complesso e articolato che in Italia non ha normativa univoca e specifica di riferimento. La giurisprudenza lo definisce e considera come quell’insieme di atti e comportamenti protratti nel tempo che hanno come obiettivo quello di escludere la vittima dal gruppo.
La maternità (e come abbiamo accennato anche la stessa possibilità di maternità) cambia il modo in cui le donne sono considerate come lavoratrici. Queste sono solo alcune delle possibile forme di pratiche discriminatorie poste in essere nei confronti delle lavoratrici incinte, delle neomamme e delle donne in età fertile:
Queste le forme specifiche del mobbing in gravidanza, ma è utile anche accennare a tutte le altre modalità con cui questo fenomeno si può manifestare. Sempre il sito dell’Arma dei Carabinieri, ribadendo come tali atti debbano essere compiuti con un chiaro intento persecutorio, ricorda che il mobbing è anche:
Al ritorno dal lavoro dopo la maternità il mobbing può manifestarsi tramite il rifiuto di concedere i permessi per l’allattamento o la malattia del figlio, ricorrere a contestazioni disciplinari pretestuose, rimproverare immotivatamente la lavoratrice per marginalizzarla e colpevolizzarla.
Come già anticipato nel nostro Paese manca una normativa specifica e unitaria che tratti la materia del mobbing. Questo non significa che non esistano norme cui fare riferimento anche a fronte dei diversi pronunciamenti della magistratura nel corso degli anni e il relativo orientamento della giurisprudenza.
A titolo di sintesi si può ricordare la Costituzione italiana (precisamente gli articoli 2, 3, 4, 32, 35 e 41), mentre per le leggi ordinarie si fa solitamente riferimento al Codice civile (articoli 2087, 2103, 1175, 1375, 2043 e 2049).
Ci sono poi lo Statuto dei lavoratori (Legge 300/1970), il Codice della pari opportunità tra uomo e donna (Decreto Legislativo 198/2006) e il Testo Unico per la sicurezza sul lavoro (Decreto Legislativo 81/2008).
L’aspetto importante su cui porre l’attenzione è che il mobbing in maternità non si avvale solo di atti propriamente illeciti. Un datore di lavoro, per esempio, ha facoltà di trasferire un dipendente o di richiamarlo per errori commessi, ma ogni azione deve essere motivata e tali condotte non devono essere pretestuose e costituire un mezzo per un altro fine, ovvero quello di danneggiare il lavoratore o la lavoratrice.
Inoltre per poter parlare di mobbing è necessario che l’azione vessatoria abbia un carattere sistematico e, quindi, prolungata nel tempo. In sintesi, richiamando anche la sentenza della Corte di Cassazione del 2014, gli elementi costitutivi del mobbing sono:
Di per sé l’ordinamento italiano non riconosce al mobbing lo status di reato penale, ma di illecito civile (quindi oggetto di un risarcimento). Esiste però la possibilità che alcune specifiche condotte riconducibili nell’ampio alveo del mobbing possano essere riconosciute dal codice penale come comportamenti criminosi.
Nel caso si sospettasse (fin dai primi segnali) di essere vittime di mobbing è innanzitutto utile rivolgersi agli organi deputati alla tutela dei lavoratori. Nelle aziende sono previste delle figure (come il responsabile dei lavoratori per la sicurezza) cui poter fare riferimento anche per questi casi. È importante provare l’esistenza degli elementi costitutivi del mobbing così da poter procedere nei confronti dei responsabili di tali azioni.
Parallelamente o in alternativa è consigliato rivolgersi a un avvocato, un sindacato o un’associazione locale dedicata alla tutela dei diritti delle donne così da essere seguite (anche come supporto psicologico se necessario) nelle varie fasi della vicenda.
La legge prevede la possibilità che la lavoratrice si opponga all’assegnazione di compiti e mansioni o trasferimenti considerati ingiustificati ed è quell’azione che viene chiamata eccezione di adempimento (articolo 1460 del Codice civile).
In altri casi può anche valutare le dimissioni per giusta causa mettendo così fine a un rapporto di lavoro insostenibile andando a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso e l’indennità di disoccupazione (la NASpI).
Una risorsa cui fare riferimento è la serie Maternità e lavoro di Save the Children con informazioni e materiali sui diritti dei genitori. In questo modo si ha una panoramica dei vari fenomeni, compreso quello del mobbing in maternità, con le strategie e le soluzioni da perseguire.
In alternativa, le mamme che ritengono di subire mobbing sul posto di lavoro possono avvalersi dei servizi della Consigliera nazionale di parità, una figura introdotta con l’art. 8 Legge n. 125 del 1991, modificata poi con il D.Lgs. n. 196/2000 – ora capo Quarto del Decreto Legislativo n. 198 del 2006.
Il ruolo della Consigliera è centrale per intervenire contro le discriminazioni di genere, con un’azione di controllo dell’attuazione dei principi di uguaglianza, di pari opportunità e, appunto, di non discriminazione.
Nell’esercizio del loro ufficio le Consigliere sono pubblici ufficiali e hanno pertanto l’obbligo di segnalare i reati all’autorità giudiziaria. In particolare, il loro compito è rilevare le situazioni di squilibrio di genere e di violazioni della normativa in materia di parità; promuovere progetti di azioni positive e verificarli; diffonde la conoscenza; verificare la coerenza della programmazione delle politiche di sviluppo territoriale rispetto agli indirizzi istituzionali in tema di pari opportunità; sostenere le politiche attive del lavoro, comprese quelle formative, che abbiano a che fare col tema delle pari opportunità.
Gli Uffici delle Consigliere regionali e provinciali si trovano presso le regioni e le province, e sono dotati anche di opportune strutture regionali di assistenza tecnica e monitoraggio per riuscire a rilevare le situazioni di squilibrio di genere.
Parallelamente è importante, anche se estremamente difficile, non cedere e non assecondare le decisioni dei superiori o dei colleghi che stanno facendo del mobbing. Il timore di perdere il lavoro è elevato e concreto, ma è altrettanto elevato e concreto il rischio di ammalarsi (fisicamente e psicologicamente) e non riuscire a seguire il proprio bambino come si vorrebbe.
Quella del mobbing è una realtà, come tutte le forme di persecuzione e discriminazione, odiosa e faticosa da sopportare. Da sole e da soli difficilmente si riesce. È quindi sempre indispensabile richiedere supporto sia prettamente legale per la tutela dei propri diritti di lavoratrice, ma anche psicofisica per la cura della propria persona.
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