Il parto, il momento che porta all’espulsione del feto e della placenta, può avvenire in diversi modi. È possibile distinguere tre diverse tipologie di parto: parto eutocico, parto distocico e taglio cesareo. La principale differenza riguarda l’intervento o meno di strumenti e tecniche ostetriche.

Il cosiddetto parto eutocico, infatti, è il parto vaginale che avviene spontaneamente, mentre il parto distocico è quello nel quale non è possibile un parto vaginale spontaneo e si deve intervenire mantenendo comunque il passaggio nel canale vaginale. Il parto cesareo, invece, è un vero e proprio intervento chirurgico nel quale, mediante taglio addominale, il feto e la placenta vengono estratti senza passare attraverso il canale vaginale.

Tra le possibili forme di parto distocico c’è il parto operativo, una realtà articolata e delicata da conoscere con molta attenzione.

Cosa significa parto operativo?

L’Obstetrics, Gynaecology & Reproductive Medicine definisce il parto operativo come un parto vaginale eseguito mediante l’utilizzo di qualsiasi tipo di pinza o ventosa. Obiettivo del parto operativo è quello di accelerare il parto in modo sicuro.

L’attenzione verso il parto operativo non è da sottovalutare considerando come molte donne hanno riferito di preferire un taglio cesareo dopo aver subito un parto operativo. È quanto emerso in uno studio ormai datato (è stato pubblicato nel 2003 e riportato dall’Istituto Superiore di Sanità) ma indicativo su quella che è l’esperienza legata a questa tipologia di parto.

Come si effettua: tecniche e strumenti

Tecniche-parto-operativo
Fonte: iStock

Si valuta il ricorso al parto operativo se si sospetta una compromissione fetale (come per esempio un tracciato della frequenza cardiaca anomalo) o in presenza di una seconda fase del travaglio prolungata. Nelle linee guida della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO) si riferisce come l’esecuzione di un parto operativo in alternativa a un taglio cesareo riduce il rischio di complicanze materne permettendo una più rapida estrazione del feto. Esistono sostanzialmente due tecniche: quella mediante ventosa ostetrica (Omnicup) e più raramente tramite forcipe.

Ventosa ostetrica

Per l’applicazione della ventosa ostetrica, come riportato dall’approfondimento dell’Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani (AOGOI), è necessario che la dilatazione cervicale sia completa, che il feto sia in posizione cefalica, che la testa del feto sia impegnata, che sia possibile individuare la sutura sagittale, la vescica sia vuota e sia presente in sala parto professionisti atti a garantire le manovre di rianimazione neonatale necessarie.

La coppetta della ventosa ostetrica si applica sul punto di flessione della testa fetale (sulla sutura sagittale) per poi eseguire trazioni concomitanti alle contrazioni uterine e alla spinta della donna. La testa deve progredire a ogni trazione che non devono essere più di 6 per una durata complessiva dell’intervento non superiore a 15 minuti. Nel caso in cui la coppetta si distacchi dalla testa fetale è consentito una sola riapplicazione.

Forcipe

Come riportato in questo studio l’utilizzo del forcipe (lo strumento a forma di pinza costituito da due estremità con una concavità più o meno marcata) è indicato in presenza di distress fetale nella seconda fase del travaglio, il feto che non avanza e disagio materno.

Anche per l’utilizzo del forcipe è necessario che la cervice sia completamente dilatata, la vescica sia vuota, le membrano siano rotte e non ci sia alcun ostacolo evidente e prima della procedura dovrebbe essere prevista una forma di anelgesia o anestesia.

Il forcipe si applica fissandolo sulla testa del feto per poi applicare una trazione tale da modificare la velocità di avanzamento. Esistono diverse tipologie di strumenti: il forcipe di Kielland (per la rotazione e l’estrazione del feto) e il forcipe di Simpson (per il parto senza necessità di rotazione). Ogni estremità del forcipe viene quindi fatta scivolare accanto alla testa del feto mentre la vagina viene protetta dalla mano dell’operatore che esegue la procedura.

Ci sono differenze con il parto distocico?

Il Manuale MSD spiega come si parli di distocia fetale quando vi è un’anormale dimensione o posizione del feto tale da rendere il parto difficoltoso. La risoluzione di un parto distocico può avvenire con un parto operativo o anche con un taglio cesareo.

Le controindicazioni al parto operativo

Il parto operativo, per il quale ci deve essere il consenso della donna (e in questo senso può essere utile valutare la redazione del piano del parto), è un tipo di parto legato a un potenziale aumento della morbilità materna e neonatale.

È una procedura controindicata in caso di macrosomia fetale, una prima fase del travaglio prolungata, malposizione fetale, analgesia epidurale, ritardo della crescita intrauterina, oligodramnios e insufficienza placentare.

Le possibili complicanze per madre e feto

Come evidenziato dal Manuale MSD, nonostante le ragioni per cui si possa valutare il ricorso al parto vaginale operativo, questo tipo di procedura non è esente da complicanze. Le principali sono legate alle lacerazioni materne, ai traumi fetali e a un’emorragia.

I traumi sono più frequenti con l’utilizzo del forcipe, mentre l’utilizzo della ventosa è associato a un maggior rischio di distocia di spalla, ittero, emorragie retiniche e cefaloematoma.

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