Il mio primo cesareo è stato un trauma.

Avevo travagliato tutta la notte, con dolore ma con serenità. Confidavo in un parto naturale e liberatorio, volevo essere io a spingere mio figlio nel mondo. Davide, però, all’ultimo momento si è incastrato nelle profondità del mio corpo, e così, dilatata di ormai dieci centimetri, sono stata condotta in sala operatoria perché lui nascesse senza complicazioni.

Meno di due anni dopo ho messo al mondo sua sorella, sempre in travaglio ma ancora con un taglio cesareo.

Mi facevano sentire diversa e inadeguata

Non è stato facile, all’inizio, fare i conti con quella che una parte di me considerava una specie di mancanza. Una falla nel piano originario, una diversione dall’ordine naturale degli eventi. Mi sentivo in qualche modo deprivata di una esperienza fondamentale per la maternità, del suo inizio, del capitolo primo.

E le allusioni di altre madri sul fatto che io non avessi “davvero partorito”, che non avessi “sofferto fino in fondo” (come se farsi tagliare e poi ricucire sei strati di tessuto non fosse “abbastanza” doloroso) mi facevano sentire diversa e inadeguata. Mi facevano sentire sbagliata.

Se mai avessi un terzo figlio, mi piacerebbe insistere per avere un Vbac, ovvero un parto vaginale dopo un cesareo. Dopo due cesarei, nel mio caso. Provare ad accoglierlo nel mondo spingendo come mi avevano insegnato le ostetriche, vivere la sensazione che mi è mancata quando sono nati Davide e Flavia.

La mia cicatrice racconta qualcosa di me

Ma ho fatto pace con quel doppio taglio sopra il pube. Ho imparato a considerarlo una parte importante del mio vissuto di donna e di madre, una cicatrice che racconta qualcosa di me. Dei miei due cesarei, a distanza di qualche anno, è rimasto il segno visibile del tempo in cui i miei figli hanno abitato il mio corpo, e del loro passaggio attraverso la mia carne per venire al mondo.

È rimasto un ventre diverso, che mai, forse, riacquisterà la forma che aveva prima. Ma che è una traccia evidente delle scelte che mi hanno condotto fin dove sono. Del cammino che ho voluto e saputo percorrere fino a questo momento.

Dei miei due cesarei è rimasta qualche leggera fitta in certe giornate d’autunno, che io accolgo con un pizzico di nostalgia pensando a quando i miei bimbi erano dentro di me, o appena nati fra le mie braccia. È rimasta la consapevolezza di avere affrontato il bisturi, il dolore, il sangue.

Di esserne uscita, di avercela fatta senza conseguenze importanti. È rimasta la gratitudine per avere due figli sani. E la volontà di amare il mio corpo anche se non è più integro, se non è più liscio e compatto come lo era prima.

L’amore non si misura con il dolore

Quello che è rimasto, dei miei due cesarei, è soprattutto la certezza che si diventa madri in tante maniere diverse, che non passano per forza dalle doglie e neanche, in effetti, dalla gravidanza stessa.

Che la misura dell’amore di una madre non ha in alcun modo a che fare con l’intensità del dolore che prova, nel primo giorno di vita di suo figlio e in tutti quelli che seguiranno. Che ogni vita che nasce è una storia inedita e irripetibile, un miracolo uguale a tutti i precedenti eppure speciale e unico.

E chi giudica, semplicemente, non ha capito nulla.

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