Nel corso della gravidanza alla donna incinta possono essere prescritti alcuni esami di screening prenatale non invasivi, per conoscere meglio lo stato di salute del feto e rilevare eventuali anomalie genetiche.

Tra questi si trova il bitest, che analizza alcune informazioni genetiche relative alla Trisomia 21 (nota come sindrome di Down), alla Trisomia 18 (Sindrome di Edwards) e alla Trisomia 13 (Sindrome di Patau).

Il bitest consiste in un prelievo di sangue, che viene inviato ad un laboratorio di analisi dove si misura la presenza di due diverse proteine (da qui il nome). Al bitest si associa poi un’ecografia specifica, la translucenza nucale. che misura lo spessore dello spazio che si trova dietro la nuca del feto.

Quando fare il bitest

Trattandosi di un esame di screening e non diagnostico, il risultato del bitest esprime un calcolo probabilistico: non dà cioè come risultato una diagnosi certa (positiva o negativa), ma consente di individuare un calcolo delle probabilità per quanto riguarda la presenza di anomalie genetiche e cromosomiche o di altre patologie nel feto.

Si tratta di un esame non invasivo, privo cioè di rischi per la donna in gravidanza, che si effettua tramite un semplice prelievo di sangue e viene prescritto in abbinamento all’ecografia della translucenza nucale, che il ginecologo svolge nel corso del primo trimestre di gravidanza, in genere tra l’undicesima e la quattordicesima settimana: i due esami insieme costituiscono il cosiddetto “test combinato“.

Come funziona il bitest

Il bitest è un esame di screening prenatale che fornisce, attraverso indagini ecografiche e biochimiche, alcune informazioni circa le alterazioni del patrimonio genetico del feto e in particolare evidenzia la sindrome di Down.

Può essere effettuato a partire dalla decima e entro la 14^ settimana di gravidanza, e si definisce “bi-test” perché serve per misurare due particolari proteine (Frazione beta libera della gonadotropina corionica e Papp-a, Proteina plasmatica A associata alla gravidanza) i cui risultati vengono confrontati per stabilire il cosiddetto “indice di rischio”, che viene espresso in percentuali o frazioni. Come ricorda anche il sito dell’Istituto superiore di sanità (Iss):

Occorre sempre considerare che il risultato del test combinato indica solo il rischio di una specifica sindrome cromosomica. Pertanto, un risultato negativo non garantisce che il feto non l’abbia così come un risultato positivo non garantisce che il feto ne sia colpito.

Bitest e translucenza nucale

bitest e translucenza nucale

Tramite il bitest si può identificare circa l’85% dei feti affetti da Trisomia 21. La percentuale di falsi positivi, cioè di risultati che indicano la presenza di un rischio nonostante il feto non abbia poi effettivamente anomalie cromosomiche, è del 5%.

Oltre al test di laboratorio sul prelievo di sangue il ginecologo effettua il test della translucenza nucale: insieme i due esami compongono il cosiddetto “test combinato”.

La translucenza nucale è un’ecografia che viene effettuata tra l’11^ e la 14^ settimana di gravidanza, ha un’affidabilità di circa il 90% e misura tramite ecografia addominale lo spessore nucale del feto stabilendo una percentuale di rischio della presenza di particolari patologie, come appunto la Trisomia 21 e la Trisomia 18 (nota come sindrome di Edwards).

Risultati del bitest

L’indice di rischio che risulta dall’analisi di laboratorio è espresso in percentuali o frazioni. Se il valore che risulta dall’esame è inferiore rispetto al valore di soglia fornito dal laboratorio (ad esempio 1/250) l’esame si considera negativo.

Se invece il valore dell’esame risulta superiore a quello “di soglia” viene considerato positivo e viene prescritta l’amniocentesi oppure il prelievo dei villi coriali (la villocentesi), esami che sono di tipo invasivo poiché effettuati nei tessuti interni che consentono però di approfondire l’eventuale presenza di anomalie e quindi confermare o meno i risultati del bitest.

Spiega ancora l’Iss:

Il risultato del test combinato è classificato come alto rischio, o positivo, se la probabilità stimata è uguale o superiore ad una determinata soglia che può variare nei diversi laboratori (generalmente è compresa tra 1:250 e 1:385, valore corrispondente al rischio stimato per una donna di 35-37 anni). Solo la lettura di un professionista sanitario consente la corretta interpretazione del risultato di questo esame. Il test combinato identifica correttamente circa l’85% delle donne che hanno un feto con la sindrome di Down. Circa il 5% delle donne riceve invece un risultato cosiddetto falso positivo, vale a dire che indica la presenza della sindrome di Down quando, invece, la sindrome non è presente.

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