La coagulazione del sangue in gravidanza è un fattore molto importante per la salute della donna e del feto. Dal momento che durante la gestazione il corpo è interessato da numerosi cambiamenti, gli effetti vanno monitorati con attenzione per intervenire prontamente in caso di anomalie.

L’intero sistema cardiocircolatorio in particolare nei 9 mesi di gestazione è interessato da cambiamenti importanti, sia per quanto riguarda la quantità del sangue che viene pompato dal cuore sia per le modifiche che possono interessare la coagulazione del sangue.

In gravidanza infatti il sangue coagula di più, per prevenire il rischio di emorragie durante il parto. Una misura di protezione che tuttavia può portare a complicazioni, perché aumenta il rischio trombotico (cioè la formazione di coaguli nel sangue).

Per indagare eventuali anomalie si eseguono alcuni test specifici volti a misurare proprio la capacità di coagulazione del sangue e per lo screening della trombofilia: antitrombina, proteina C, proteina S, proteina C attivata, antifosfolipidi e tempo di protrombina, o PT.

PT (tempo di protrombina): cos’è?

La protrombina è una proteina, che ha un ruolo fondamentale nella coagulazione del sangue. Per misurare la presenza di tale proteina e di conseguenza la sua efficacia si effettua un esame specifico di laboratorio, il tempo di protrombina.

Si tratta di un’analisi volta a misurare in vitro il tempo che impiega il sangue a coagularsi, attraverso una serie di reazioni chimiche che favoriscono l’attivazione della cosiddetta cascata coagulativa.

Come si effettua l’esame di protrombina?

In genere gli esami di screening per il rischio trombotico sono consigliati prima della gravidanza, come indica la Società italiana studio emostasi e trombosi, per individuare eventuali anomalie precocemente ed evitare risultati fuorvianti. Durante la gestazione vengono prescritti solo in casi particolari.

Questo esame viene eseguito su un semplice prelievo di sangue che viene inviato al laboratorio di analisi. Il prelievo va solitamente eseguito dopo un digiuno di 8 ore. Se si è in terapia con anticoagulanti il prelievo si effettua prima dell’assunzione giornaliera dei farmaci.

In laboratorio il plasma viene posto sul vetrino, e dopo l’aggiunta di una sostanza reagente si misura il tempo necessario perché coaguli. L’esame della protrombina quindi conta i secondi che sono necessari al campione di sangue per coagulare.

Si effettua a volte con un altro esame, il tempo di tromboplastina parziale attivato, o APTT. Entrambi servono per valutare la capacità di coagulazione del sangue plasmatico, per riconoscere eventuali problemi.

Tempi di coagulazione elevati possono infatti indicare difficoltà nella coagulazione, con sanguinamenti abbondanti e difficili da “fermare”, se i tempi invece sono troppo ridotti può significare che c’è un’eccessiva coagulabilità, con conseguente aumento del rischio di trombosi.

Quali sono i risultati del tempo di protrombina?

Come detto, il valore del PT si misura in secondi. Un valore standard è quello espresso in INR, o International Normalized Ratio, sviluppato dall’Organizzazione mondiale della sanità e che viene usato per uniformare i risultati dei diversi laboratori di analisi, che spesso riportano entrambi i valori, PT e INR (che di solito viene impiegato per le persone già in terapia anticoagulante).

I risultati variano a seconda del laboratorio in cui si esegue l’esame: l’Ospedale Niguarda di Milano ad esempio indica come valore normale dell’INR un dato compreso tra 0.86 e 1.13.

I valori del PT normali sono in genere compresi tra 11 e 13 secondi, ma ci sono differenze tra un laboratorio e l’altro.

Un tempo di protrombina più lungo del normale può indicare alterazioni del processo coagulativo, con un deficit di vitamina K o un’insufficienza epatica.

Se il fattore di coagulazione invece è più alto del normale aumenta il rischio di trombosi e quindi della formazione di coaguli nel sangue: in questo caso può essere necessario intraprendere una terapia con farmaci anticoagulanti.

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