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Uno studio della Stanford University ha analizzato con successo il sangue materno per stabilire la data di nascita del bambino e individuare il rischio di parto prematuro.
Addio alle datazioni approssimative che si basano sul ciclo mestruale e sulle ecografie? Sembrerebbe di sì, anche se ci vorrà del tempo: ad anticiparlo è uno studio della Stanford University pubblicato sulla rivista Science.
Secondo i ricercatori una semplice analisi sul sangue della donna incinta consentirebbe (tramite specifiche indagini di laboratorio) di datare con precisione la gravidanza e quindi di stabilire la data presunta del parto. L’analisi consentirebbe poi di individuare anche la percentuale di rischio di un parto prematuro in oltre il 75% dei casi.
Si tratterebbe di un’importante novità per le terapie neonatali in particolare nei paesi con minori risorse economiche, e dove l’accesso agli esami ecografici è più difficoltoso. In particolare è stata individuata dai ricercatori una nuova tecnica, più affidabile, per riconoscere i parti prematuri prima che si verifichino.
Una possibilità data oggi dall’ecografia a ultrasuoni unita alla datazione delle ultime mestruazioni. Non sempre tuttavia tale calcolo corrisponde alla realtà, anche a causa dell’irregolarità del ciclo mestruale della donna. Nei Paesi in via di sviluppo, inoltre, le apparecchiature ecografiche non sempre sono disponibili ed è più difficile anche accedere ad adeguate terapie neonatali nel caso di parti prematuri.
Lo studio ha quindi preso in esame un gruppo di 38 donne durante una gravidanza a rischio di parto prematuro (perché avevano già avuto parti prematuri in precedenza o perché avevano già avuto delle contrazioni) e hanno analizzato alcune molecole di RNA deputate al trasporto del materiale genetico della madre, riuscendo a stabilire la data della nascita con un’accuratezza simile a quella di un’ecografia a ultrasuoni: in 6 casi su 8 è stato poi possibile individuare i parti pretermine.
Il test è stato condotto su un ristretto gruppo di donne ed è ancora presto prevederne un utilizzo diffuso, ma ha comunque dato risultati sufficientemente soddisfacenti, evidenziano i ricercatori della Stanford University. Una prospettiva a cui il team di ricerca è ora al lavoro e che potrebbe rendere più efficaci le terapie neonatali soprattutto nei paesi in via di sviluppo.
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