Diventare genitori è la cosa più bella del mondo, dicono, ma la realtà, specie per le donne, è molto lontana da questa narrazione a lieto fine come se si trattasse di un cartone animato natalizio. È il fenomeno che prende il nome di motherhood penalty, letteralmente “pena di maternità”, ovvero un complesso di condizioni sfavorevoli per le donne che decidono di avere un figlio.

Una realtà molto più radicata di quanto si possa pensare. Un problema che genera disagi e svantaggi sulle mamme, ma anche un clima di pressione, instabilità e senso di colpa in tutte quelle donne che vorrebbero una gravidanza ma che, consapevoli di queste conseguenze, rinunciano a farlo.

Minando, di fatto, la propria libertà e compromettendo la propria sfera intima, sia personale che familiare.

Motherhood penalty: cos’è?

Quando si parla di motherhood penalty si fa quasi esclusivamente riferimento alle penalizzazioni che la maternità provoca a livello lavorativo. Ma non solo: come infatti ampiamente raccontato da Paola Setti nel suo Non è un paese per mamme. Appunti per una rivoluzione possibile, parliamo di un fenomeno che coinvolge diversi aspetti della vita privata, sociale e professionale delle donne.

Per motherhood penalty è da intendersi, come vedremo più nel dettaglio, tutto quella serie di differenze che pesano sulle donne che vogliono diventare mamme, sia dal punto di vista di accesso al lavoro, che di salario, di servizi e, soprattutto, culturale nel quale vivere. Sì, perché il problema è innanzitutto culturale per il quale l’idea di diventare mamma sia una forma irregolare del verbo della femminilità. Come se esistessero le mamme o le donne.

Le cause della motherhood penalty

Come anticipato la radice profonda della motherhood penalty è prettamente culturale e ideologica. Questa genera le discriminazioni professionali, economiche e sociali, non il contrario. Alla base di questa cultura della penalizzazione c’è l’idea per cui le donne con il diventare madri perdano qualcosa. E che, parallelamente, che la genitorialità sia una questione prettamente femminile.

Su questi due binari corre, a rapide velocità, il treno che crea quel clima di incertezza e instabilità in tutte le donne che sentono il desiderio di diventare madri, ma che sono perfettamente consapevoli di come questo provocherà delle enormi conseguenze. Perché sembra proprio che ci debba essere sempre un prezzo da pagare: per cui bisogna rinunciare a qualcosa, alla maternità o alla propria femminilità.

E c’è una mentalità, un’ideologia appunto, distorta che pensa che le donne possano essere solo o brillanti professioniste o buone madri. Un problema che non si riflette sugli uomini che risolvono il loro essere padri la sera quando tornano a casa o nel fine settimana quando hanno tempo da trascorrere con i propri figli.

Al di là dei giudizi di valore che si potrebbero dare, resta l’evidente differenza di impostazione (teorica e pratica) che le donne non possono scegliere. O l’una (la maternità) o l’altra (la carriera, il lavoro, il guadagno, eccetera).

E se è vero che la gravidanza, il parto e l’allattamento sono dinamiche che vedono come protagonista la donna, non è altrettanto vero che debba vedere in secondo piano l’uomo o, ancora, che questo debba costituire una colpa per cui la donna debba pagare una pena, motherhood penalty appunto.

Una colpa e una pena non scritte nei nostri ordinamenti civili, ma che continua a esercitare tutto il suo peso sia nelle piccole che nelle grandi aziende. In entrambi i casi, anche se nelle realtà più piccole dove il rapporto tra proprietario e dipendenti è più diretto e con meno intermediari, vi è quel clima di sospetto e terrore nel solo pensare al diventare madri.

Un clima che si esaspera quando poi si deve comunicare di essere incinta, di andare in maternità e di prendersi le dovute assenze dal lavoro. Ecco, anche “solo” questo, ancor prima degli aspetti economiche che ora passeremo in esame, è indicativo di cos’è e cosa significa la motherhood penalty per tutte le donne.

Dati e statistiche sulla motherhood penalty

Nel corso degli anni (essendo un problema ormai consolidato) sono stati condotti diversi studi e ricerche che confermano come le madri ricevono una retribuzione più bassa rispetto a quella dei colleghi uomini. Così come le mamme guadagnano meno rispetto alle donne che non hanno figli.

Una differenza tesa a colpire la femminilità e a considerare la maternità una riduzione dell’essere donne e una complicazione per il proseguimento del lavoro. Le settimane della gravidanza, ma anche quelle successive dell’allattamento o della cura dei figli, sono un costo e un peso insopportabile per le aziende.

Queste decidono di ridurre lo stipendio alle donne o, in fase di selezione, scartare le donne in età fertile che potrebbero assentarsi per portare a termine la gravidanza. La fotografia scattata dall’Istat è emblematica e non necessita di commenti:

Il tasso di occupazione dei padri di 25-54 anni, classe di età in cui è più alta la presenza in famiglia di figli di 0-14 anni, è l’89,3% mentre per gli uomini senza figli coabitanti è pari all’83,6%. Situazione opposta per le donne, che risultano penalizzate: il tasso di occupazione delle madri di 25-54 anni è al 57%, quello delle donne senza figli coabitanti è al 72,1%.

I tassi di occupazione più bassi si registrano tra le madri di bambini in età prescolare: 53% per le donne con figli di 0-2 anni e 55,7% per quelle con figli di 3-5 anni. D’altro canto, la quota di chi resta fuori dal mercato del lavoro è più bassa per i padri rispetto agli uomini senza figli (il tasso di inattività è rispettivamente 5,3% e 9,1%) e più alta invece per le madri (35,7% contro 20,3%).

Le misure a contrasto della motherhood penalty

La fotografia rilevata dalle ricerche condotte in materia deve portare a individuare la radice dei problemi e a non commettere l’errore di guardare il dito e non la luna. Se, come detto, il problema è ideologico e culturale esso va affrontato e risolto con iniziative e politiche culturali e sociali.

Il primo passo da fare è quello di recuperare l’idea che dedicarsi alla famiglia sia un bene per la società. Oggi non è così tanto che, sempre secondo le rilevazioni dell’Istat, le penalizzazioni della motherhood penalty si riflettono anche su coloro che si prendono cura di persone anziane o non autosufficienti.

Ha almeno un problema di conciliazione quasi il 42% di coloro che devono prendersi contemporaneamente cura di figli minori di 15 anni e di familiari non autosufficienti, e il 34,4% di coloro che hanno solo responsabilità di cura verso familiari disabili, malati o anziani.

Conciliare famiglia e professione è oggi diventato un sacrificio, un lavoro esso stesso, fonte di enormi stress e, inevitabilmente, di mancanze. Per le donne questo diventa insopportabile perché non viene loro perdonato di non essere ‘buone professioniste’, ‘buone madri’, ‘buone mogli’ o ‘buone figlie’. Quando invece l’essere mamme è un lavoro impagabile.

In ogni caso c’è una colpa da imputare, quando il problema reale è a monte di una società non più a misura di famiglia. Mancano le basi politiche e culturali per colmare il gap drammaticamente presente e non bastano i proclami e le indicazioni di massima attualmente in essere.

In alcuni Paesi del nord Europa il problema, con risultati positivi e apprezzabili, viene affrontato attraverso orari flessibili sia per le madri sia per i padri che, insieme, si prendono cura dei propri figli. Inoltre sono disponibili servizi pubblici dedicati e accessibili. Nel nostro Paese le realtà disponibili sono spesso carenti o a pagamento e richiedono sacrifici enormi per potervi accedere.

Ciò che è necessario è un ripensamento generale del nostro sistema che non si limiti a singoli interventi che tentino di tamponare il problema. La motherhood penalty non è una lieve ferita che può essere curata con un cerotto, ma un’emorragia che richiede un intervento articolato. Ogni giorno che passa è un aggravarsi di una situazione che nuoce sia la dignità e la libertà delle singole donne, ma anche il futuro sociale del nostro intero Paese.

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