
Angelo del focolare, pilastro indistruttibile, insostituibile fulcro di equilibrio domestico. La madre, nella narrazione comune, è tutto questo. M...
È un'amara verità da accettare che non tutti le madri (e i padri, ovviamente, ma le loro figure, chissà perché, restano quasi sempre sullo sfondo, forse perché il non partorirli fisicamente li “esonera” in qualche modo dalle responsabilità di accudimento e amore) siano amorevoli, ben disposte o disponibili verso i figli, ma è pur sempre una verità.
Qualche giorno fa, parlando con una mia amica del rapporto non proprio idilliaco che, per una serie di ragioni, ho con la madre di mio marito, lei mi ha detto una frase che mi ha fatto riflettere.
Vedila come vuoi, dovrai sempre averci a che fare ed esserle grata, perché è la donna che ha messo al mondo l’uomo che hai sposato.
È una frase che non trovo corretta, per una serie di ragioni: in primis, perché trovo che mentalità del genere siano la base su cui si reggono i comportamenti manipolatori e tossici che agiscono, spesso sotto mentite spoglie, in moltissime famiglie, e che poi sono il motivo fondante di molti dei traumi che ci trasciniamo fino all’età adulta. Pensare di “dover essere grati” a una madre o a un padre solo in virtù della loro “figura istituzionale”, spesso dimenticando i tormenti, le ferite, le sofferenze che ci hanno inflitto con i loro modi di fare, o i comportamenti che abbiamo normalizzato una volta cresciuti solo perché sono gli unici che abbiamo sempre visto fare, non è solo un modo arcaico di ragionare, ma è anche il modo migliore per continuare ad accettare che ci venga fatto del male e, come dire, esserne perfettamente consapevoli.
In secondo luogo, perché questo deve essere un ragionamento a senso unico? Ovvero, perché devono essere sempre e solo i figli a portare la memoria, per così dire, del legame di sangue, genetico e biologico, e mai i genitori? Perché si sente sempre e solo dire a un figlio “È pur sempre tua madre/tuo padre” e praticamente mai a un genitore “È tuo figlio?”. Perché è come se ai genitori fosse data in concessione l’idea di poter dimenticare il vincolo che li lega a un figlio, mentre un figlio non può allontanarsi da un padre o da una madre tossici senza essere giudicato o senza che vengano tirate in ballo circostanze esterne (leggasi compagne o mogli)?.
Al netto della visione – soprattutto – ipermaternalista con cui ci hanno fatto crescere, del mito della madre accudente, angelo del focolare e via dicendo, è un’amara verità da accettare che non tutti le madri (e i padri, ovviamente, ma le loro figure, chissà perché, restano quasi sempre sullo sfondo, forse perché il non partorirli fisicamente li “esonera” in qualche modo dalle responsabilità di accudimento e amore) siano amorevoli, ben disposte o disponibili verso i figli, ma è pur sempre una verità.
In quanto umane, e quindi corredate di quel patrimonio genetico di difetti che ci appartiene, le mamme possono diventare gelose della vita del figlio, sentirsi in competizione con “l’altra” figura femminile che può subentrare nella sua vita e vivere la sua presenza come un’invasione di uno spazio che, fino a quel momento, è sempre stato intimo e personale, o, semplicemente, possono non provare quell’attaccamento sconfinato comunemente chiamato “istinto materno” e che, anche secondo la scienza, non è che un mito. Insomma, potrà essere un amaro boccone da digerire, ma non tutte le madri sono disposte a gettarsi nel fuoco per i figli, se è così che vogliamo sintetizzare la questione.
Il senso di gratitudine “obbligato” che culturalmente ci hanno instillato per essere considerati bravi figli e che, per estensione, diventa gratitudine obbligata anche di nuore o generi verso colei che ha partorito il o la partner, non ci permette di emanciparci da situazioni che, viste dall’esterno, sono altamente tossiche e tipiche di famiglie disfunzionali, pena il senso di colpa perenne da portare con sé per essere colui o colei che ha “abbandonato” la famiglia di origine.
Angelo del focolare, pilastro indistruttibile, insostituibile fulcro di equilibrio domestico. La madre, nella narrazione comune, è tutto questo. M...
Ma allora, mi chiedo: il “legame di sangue” è davvero il fattore determinante che guida i rapporti tra genitori e figli? Oppure, estendendo il tutto a quelle famiglie i cui figli non condividono il corredo genetico dei genitori – penso quindi ai figli adottati – ma vivono comunque situazioni disfunzionali, è il fatto di essere stati cresciuti (non importa come) mantenuti economicamente per un certo periodo, o di avere un cognome assegnato, a renderci obbligatoriamente eternamente grati a madri e padri? Anche quando loro sono i primi a essersi dimenticati delle nostre esigenze, anche quando ci hanno voltato le spalle nei momenti di bisogno, anche quando non hanno mostrato rispetto a noi in quanto persone, considerandoci solo “figli” e, quindi, estensioni di se stessi se non addirittura oggetti di cui reclamare l’appartenenza?
Soprattutto, esiste un limite accettabile superato il quale un figlio può essere considerato “legittimato”, anche a livello sociale, a smettere di doversi sentire grato per forza ai genitori, oppure non ci sono soglie previste per gli errori genitoriali?
Non starò a entrare nel merito dei motivi del rapporto difficile che, attualmente, io e mio marito abbiamo con i suoi genitori, ma per esperienza personale posso dire che quando un figlio arriva a maturare un certo distacco dai propri genitori, essendo cresciuto secondo il mantra del “sono pur sempre i tuoi genitori”, è perché dietro c’è un bagaglio di sofferenza, oltre a un processo psicologico, emotivo, e a una progressiva maturazione che porta alla consapevolezza che quanto si è vissuto, anche durante l’infanzia e l’adolescenza, non fosse normale, che a un certo punto è impossibile ignorare tutti i segnali e, per la propria salvaguardia, prima ancora che per quella della famiglia che si è scelto di costruire, è bene mettere un punto.
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Solo che questa decisione, dall’esterno, non sarà mai vista come comprensibile o necessaria; sarà sempre scandagliata, indagata, e, alla fine, giudicata. Male, nella stragrande maggioranza dei casi. Dando la colpa al o alla partner, magari, oppure parlando di “ingratutidine” del figlio. Perché sì, da figli non ci viene praticamente mai insegnato a evitare, con i nostri bambini, gli errori compiuti dai nostri genitori, ma ci viene detto che dobbiamo essere loro grati, sempre e comunque.
Normalizzare che i genitori siano non solo fallibili – quella è un’ovvietà – ma spesso per primi distaccati, indifferenti, persino nocivi, può essere il primo passo per scrollarci di dosso quella gratitudine obbligata che ci lega a loro vita natural durante, anche quando la loro presenza ci fa male.