
"Se mio figlio potesse capire che 'noi' non siamo migliori di 'loro', anzi"
La nostra intervista alla scrittrice Daniela Farnese sulla maternità e l'educazione dei figli, che non ...
Di che portata deve essere la disperazione di una madre, di un padre, per spingerli a mettere il loro figlio in una condizione di rischio estremo, pur di portarlo via dal posto in cui ha avuto la sventura di nascere?
Sono anni che mi chiedo, a giorni alterni, se andare a vivere in un posto diverso. A lungo, da bambina e poi da giovane donna, sono stata convinta che il destino mi avrebbe portato lontano dalla terra in cui sono nata. Ricordo che quando ero adolescente, o poco più, la prospettiva di nascere, crescere e morire nello stesso posto mi pareva semplicemente asfissiante.
Per anni, in effetti, ho studiato e poi lavorato lontano dai miei luoghi di origine, per una breve parentesi anche all’estero. Poi, per una serie di ragioni di varia natura, sono tornata nel posto da dove ero partita. Un luogo che è un po’ ai confini dell’Europa e del mondo ricco e privilegiato di cui comunque faccio parte.
Un luogo in cui le opportunità – professionali, culturali, economiche, sociali – non sono paragonabili a quelle offerte da molte capitali del Nord, specie se sei nata donna e se nel frattempo sei pure diventata madre, due volte.
Ci ho pensato molte volte, di prendere la mia famiglia e partire. Ancora adesso, con un figlio ormai a scuola, mi capita di pensarci, e di frequente. Eppure non l’ho fatto mai. A quasi 10 anni dal mio ritorno “a casa”, sono ancora qui. È qui che sono nati i miei figli, ed è qui che stanno crescendo.
Perché, al di là delle motivazioni personali e della propria indole, non è semplice mollare tutto e andare, specie quando hai la responsabilità di un figlio piccolo, magari più di uno. Perché anche potendo contare sulle migliori condizioni di partenza – documenti in regola, titoli di studio, disponibilità economica pregressa, alternative di ripiego in caso di fallimento o ripensamento – la scelta di lasciare la propria casa e imporre ai figli un salto nel buio è difficile. È penosa, ansiogena, complicata. È spaventosa, oserei dire.
Tanto che io non l’ho mai fatta, nonostante mi senta, da molti anni, profondamente insoddisfatta dal punto di vista professionale e frustrata dal contesto sociale in cui vivo. Non l’ho fatta io, come tantissime persone che pure vorrebbero migliorare la propria condizione e quella della loro famiglia.
La verità è che noi non abbiamo davvero bisogno di andare. Per quanto sentiamo di non essere appagati, per quanto sappiamo che “altrove” potremmo forse lavorare meglio, avere uno stato sociale più efficiente, guadagnare di più o offrire migliori prospettive di studio ai nostri figli, in fondo conduciamo una vita privilegiata già nel posto in cui stiamo. E cambiare lo status quo, spezzando radici, mettendo in discussione ogni cosa, perdendo affetti e amicizie, rischiando risparmi e serenità è un rischio che in pochi sentono di correre.
Figuriamoci cosa deve voler dire rischiare la propria stessa sopravvivenza e quella dei propri figli. Affidarla consapevolmente a trafficanti di anime, esporre la propria persona e gli affetti più cari alla minaccia della fame, delle torture, della dissenteria epidemica, dell’arsura del deserto e del freddo umido delle notti in mezzo al mare.
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Voi lo fareste? Rischiando concretamente, per voi e per i vostri figli, il naufragio e la morte per annegamento. Nella consapevolezza che, nella migliore delle ipotesi, completare il viaggio significherebbe ritrovarsi, soli e senza diritti, in un posto sconosciuto, dove tutto è diverso rispetto a quello che avete conosciuto in tutta la vostra esistenza: il clima, la lingua, il cibo, i costumi, la religione, l’economia.
Chi di voi sarebbe disposto a tanto? Quanto deve essere disperata una madre che decide di mettere suo figlio su una barca fatiscente, condotta da uomini spregevoli e senza scrupoli, e attraversa un mare sconosciuto sperando perlomeno che lui sopravviva? Io, che periodicamente valuto la possibilità di partire per una casa forse “più soddisfacente” ma ogni volta mi lascio scoraggiare dalla paura dell’ignoto, dall’ansia, dalla minaccia della nostalgia, non riesco neanche a immaginare quanta oscurità si debba avere attorno per sottoporre se stessi, e ancora peggio i propri figli, a un rischio così drammatico.
È a questo che penso, quando leggo di migranti che solcano il Mediterraneo, o che tentano di farlo nella speranza di approdare sulla sponda in cui io ho avuto la fortuna di nascere. È a questo che penso quando leggo delle reazioni di diffidenza, di fastidio, se non proprio di odio: alla necessità, alla difficoltà, alla disperazione che evidentemente muove una scelta così folle, così azzardata, talmente rischiosa da essere contraria all’istinto stesso di sopravvivenza. E a quanto questa disperazione dovrebbe muovere empatia, pietà e solidarietà, se è vero che siamo umani.
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