Durante la gravidanza il corpo si prepara a prevenire le emorragie del parto anche aumentando la coagulazione del sangue. Un’azione di tutela che, tuttavia, può provocare alcune complicanze durante la gravidanza, e aumentare il rischio trombotico.

Ecco perché in gravidanza la donna si sottopone a una serie di esami volti a monitorare la capacità coagulativa del sangue, in presenza di fattori di rischio o di familiarità con eventi trombotici. Tra questi si trova la misurazione della proteina C, che, con la proteina S e l’antitrombina III, evita che la coagulazione diventi eccessiva.

Esame per la Proteina C attivata (APC): a cosa serve

La resistenza alla proteina C attivata è un esame che può fornire utili informazioni circa una particolare malattia ereditaria che aumenta il rischio di un’eccessiva coagulazione del sangue: si tratta della mutazione del Fattore V, noto anche come Fattore V Leiden, che è una delle più comuni cause di trombofilia.

Quando fare l’esame per la Proteina C attivata?

L’esame per la proteina C attivata viene eseguito nelle prime settimane di gravidanza, o – ancora meglio – prima dell’inizio della gravidanza, per valutare la presenza di un maggiore rischio di trombosi e agire di conseguenza.

L’esame si effettua su un semplice campione di sangue: il prelievo si effettua a digiuno e viene prescritto dal ginecologo all’inizio della gravidanza.

Come spiega la Società italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO):

La valutazione del rischio tromboembolico è di fondamentale importanza nella donna gravida e si basa innanzi tutto su un’accurata anamnesi, mirata alla conoscenza di eventuali pregressi episodi tromboembolici nella paziente o nei suoi familiari di primo grado. L’anamnesi è fondamentale per stabilire eventuali indicazioni ad approfondimenti diagnostici e messe in atto di misure di prevenzione. Ogni gravida dovrebbe essere sottoposta a un’attenta valutazione dei fattori di rischio per TEV nelle prime settimane di gestazione o, meglio ancora, prima della gravidanza. Non vi è indicazione a eseguire esami di screening per trombofilia in donne asintomatiche, gravide o che si accingono ad affrontare una prima gravidanza, che non presentino documentata storia personale o familiare di tromboembolismo venosa. Allo stesso modo, non è indicato lo screening di trombofilia nelle donne asintomatiche con storia familiare di complicanze ostetriche.

Quali sono i risultati dell’esame?

L’esame per la resistenza alla proteina C attivata indica se è presente o meno un maggiore rischio di trombosi. Se la resistenza è normale si può escludere la presenza della mutazione del Fattore V; se la resistenza è media è compatibile con una mutazione eterozigote, che indica un’alterazione in una sola copia del gene, mentre una resistenza grave indica una mutazione omozigote, che ha un’alterazione in entrambe le copie del gene.

La stima è di un aumento del rischio trombotico di 7 volte per chi ha una mutazione eterozigote e di 80 volte per gli omozigoti. Anche nel caso in cui si evidenzi l’alterazione non significa che si incorrerà con certezza in un evento trombotico ma sicuramente la situazione va monitorata con maggiore attenzione. Il rischio di trombosi aumenta poi in presenza di altri fattori come antitrombina III, proteina C e proteina S, e altri.

In gravidanza una lieve resistenza alla proteina C attivata può essere normale anche non in presenza di alterazione del Fattore V. La stessa resistenza può essere dovuta all’assunzione di pillola anticoncezionale o di terapia ormonale sostitutiva.

Terapia e prevenzione

Una volta individuata la presenza di un maggiore rischio trombotico alla donna in gravidanza può essere prescritta dal medico una terapia a base di eparina, che svolge un’azione anticoagulante. L’eparina viene poi somministrata dopo il parto in presenza di fattori di rischio.

Il monitoraggio è fondamentale, dal momento che, come ricorda la Società italiana di Ginecologia e Ostetricia, il rischio di tromboembolismo venoso (TEV) aumenta nelle donne incinte:

Le donne gravide presentano un rischio di TEV da 4-5 fino a 10 volte maggiore rispetto alle donne non gravide. Tale variabilità è correlata ad altri cofattori di rischio, quali l’età della donna, l’obesità, precedenti episodi tromboembolici, stati trombofilici congeniti o acquisiti. L’incidenza stimata di TEV in gravidanza è 1: 1000 e diventa fino a cinque volte più alta durante il puerperio. La predisposizione a sviluppare TEV è la conseguenza di uno stato di “ipercoagulabilità” proprio della gravidanza che, da un punto di vista evolutivo, ha probabilmente la finalità di proteggere la donna da emorragie eccessive durante il parto.

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